
♢ Kim Myhr – Vesper (Hubro, 2020)
♢ Sylvain Chauveau – Life Without Machines (FLAU, 2020)
♢ Oscillatorial Binnage – Agitations: Post-Electronic Sounds (Sub Rosa, 2020)
♢ SEC_ & Tricatiempo – La Tana (Subincision, 2020)

Kim Myhr – Vesper
Hubro, 2020 | contemporary classical, free folk
Un nuovo sentiero espressivo è stato inaugurato dalla vanitas cameristica Pressing Clouds Passing Crowds (Hubro, 2018), primo avvicinamento del chitarrista norvegese Kim Myhr alle atmosfere e ai protagonisti del collettivo Wandelweiser, di cui l’etichetta Another Timbre è tra i principali promotori. Il progetto realizzato in collaborazione con Caroline Bergvall, Ingar Zach e il Quatuor Bozzini apriva le inusuali accordature di Myhr alla rarefazione delle avanguardie post-cageane, accogliendo in vari passaggi le fragili armonie di Morton Feldman, influenza inesauribile per la composizione radicale contemporanea.
Ideale e diretta prosecuzione ne è la suite tripartita Vesper, registrata nel giugno del 2018 nell’ambito del Melbourne International Jazz Festival. Al fianco del chitarrista troviamo sei illustri strumentisti della Australian Art Orchestra assieme all’ospite d’eccezione Tony Buck, versatile batterista e percussionista del trio The Necks già comparso nel precedente You | me (Hubro, 2017).
Le ore serali sono quelle in cui la vita quotidiana tende a rallentare la sua corsa, i tempi si dilatano e risulta più facile entrare in contatto con il proprio intimo sentire. In tal senso la prima parte dell’opera rappresenta l’emblema di un ritmo di vita ideale, una lunga serie di respiri profondi simulati dal moto ondivago dell’ensemble, tra brevi silenzi e delicatissime tonalità senza vibrato (quasi dirette discendenti della “Coptic Light” feldmaniana); in questo placido panorama l’arpeggiare della chitarra elettrica a 12 corde è come una liquida distesa di riverberi solari che invadono orizzontalmente il nostro campo visivo, muovendo verso altre latitudini sino a scomparire.
A questa fase liminale tra giorno e sera fa seguito l’immersione in un’altra modalità relazionale, un’esistenza parallela e “segreta” rispetto alle ore di luce. Cominciano ad emergere individualmente le voci del gruppo: il fraseggio sommesso, finanche soffocato dei fiati (Peter Knight alla tromba, Aviva Endean ai clarinetti), i tenui stridori in armonico naturale degli archi (Erkki Veltheim alla viola, Lizzy Welsh al violino), mentre gli apparati elettronici di Joe Talia e le percussioni procedono a colmare con crescente intensità i vuoti di un tumulto sotterraneo che torna a placarsi spontaneamente, adagiandosi poi sulla pulsazione cardiaca del contrabbasso di Jacques Emery.
Con il suo strumming policromo, Kim Myhr detta il mood e l’andatura dell’opera come un gentile direttore d’orchestra, tracciando un arco espressivo che nella sezione finale procede come a ritroso per tornare all’introversione del principio, nell’iterazione di uno scenario ancor più pensoso e rarefatto dove l’estremo riecheggiare in lontananza della chitarra lascia intravedere un barlume di agognata quiete spirituale.
A new expressive path has been inaugurated with the chamber ‘vanitas’ Pressing Clouds Passing Crowds (Hubro, 2018), Norwegian guitarist Kim Myhr’s first approach to the atmospheres and protagonists of the Wandelweiser collective, of which the label Another Timbre is one of the main promoters. The project carried out in collaboration with Caroline Bergvall, Ingar Zach and Quatuor Bozzini opened Myhr’s unusual tunings to the rarefaction of the post-Cagean avant-gardes, welcoming in various passages the fragile harmonies of Morton Feldman, an inexhaustible influence on contemporary radical composition.
The tri-partite suite Vesper, recorded in June 2018 as part of the Melbourne International Jazz Festival, is its ideal and direct continuation. Alongside the guitarist are six distinguished instrumentalists of the Australian Art Orchestra together with the special guest Tony Buck, versatile drummer and percussionist of The Necks trio, who already appeared in the previous You | me (Hubro, 2017).
The evening hours are those in which daily life tends to slow down its rush, time dilates and so it’s easier to get in touch with one’s own intimate feelings. In this sense, the first part of the work represents the emblem of an ideal rhythm of life, a long series of deep breaths simulated by the wave motion of the ensemble, between short silences and delicate tones without vibrato (almost direct descendants of Feldman’s “Coptic Light”); in this placid panorama the arpeggios of the 12-string electric guitar is like a liquid expanse of solar reverberations horizontally invading our field of vision, moving towards other latitudes and finally disappearing.
This liminal phase between day and night is followed by an immersion into another mode of relating, a parallel and “secret” existence compared to the hours of light. The group’s voices begin to emerge individually: the subdued, even suffocated phrasing of the winds (Peter Knight on trumpet, Aviva Endean on clarinets), the subtle stridors in natural harmonic of the strings (Erkki Veltheim on viola, Lizzy Welsh on violin), while Joe Talia’s electronic apparatuses and the percussions go on filling the voids of an underground turmoil with increasing intensity, until it spontaneously settles down resting on the cardiac pulsation of Jacques Emery’s double bass.
Through his polychromatic strumming, Kim Myhr dictates the mood and pace of the piece like a gentle conductor, tracing an expressive arc that in the final section seems to proceed backwards and return to the introversion of the beginning, in the iteration of an even more pensive and rarefied scenario where the ultimate echo of the guitar in the distance allows a glimpse of a coveted spiritual peace.

Sylvain Chauveau – Life Without Machines
FLAU, 2020 | contemporary classical, minimalism
Lema Sabachthani? ‘Perché mi hai abbandonato?’ Nella visione artistica e poetica di Barnett Newman, il potere simbolico delle Stazioni della Croce va ben oltre il racconto devozionale cui sono storicamente legate: in esse il maestro del minimalismo americano vede riflessa “l’agonia di ogni uomo: l’agonia che è individuale, costante, implacabile” che ciascuno di noi dovrà fronteggiare in un dato momento della propria esistenza.
La serie di quattordici dipinti realizzata tra il 1958 e il 1966 non è una sequenza narrativa ma un unicum espressivo che, nel suo carattere aniconico e acromatico (spesse tracce nere su tela bianca), sembra voler condensare il grido silenzioso di una solitudine universale.
La struttura del ciclo pianistico Life Without Machines di Sylvain Chauveau si dipana in maniera simmetrica rispetto al monumentale capolavoro di Newman, guardando a ogni quadro come a una semplice quanto misteriosa partitura grafica. Ma, come suggerisce il titolo, il compositore francese vi ha abbinato anche una più ampia riflessione sull’odierna civiltà delle macchine, uno sviluppo inarrestabile che minaccia l’autonomia e inibisce le capacità dell’essere umano, ormai inscindibile dalle appendici tecnologiche che egli stesso ha creato. Chauveau ha poi sapientemente affidato l’esecuzione dell’opera alla profonda sensibilità del connazionale Melaine Dalibert, devoto alle risonanze prolungate del pianoforte come elementi di dialogo tra il suono e il silenzio.
Ancora una volta è impossibile non risalire alla lezione del tardo Morton Feldman, come rimarca quasi ossessivamente Kenneth Goldsmith nelle note di copertina: le brevi sequenze di singoli toni, alternati tra registro grave e acuto, mantengono fedelmente intatta la natura interrogativa delle contemplazioni pittoriche, sintetizzando in brani di pochissimi minuti temi che potrebbero estendersi infinitamente, ma che parimenti al ciclo di Newman vanno invece considerati nella relazione reciproca tra un segmento e gli altri a esso circostanti.
Apparentemente il tocco limpido e delicato di Dalibert sembra contrastare con la nettezza dei solchi tracciati sulla tela, in realtà la somma di tante pazienti pennellate che spesso si sfrangiano al di là dei contorni più visibili. Similarmente Chauveau opera dei sottili interventi elettronici sulla superficie acustica della registrazione, deforma in maniera quasi impercettibile le vibranti geometrie del piano, senza per questo allontanarle dalla loro matrice “fisica” e anzi accentuandone, paradossalmente, il carattere fragilmente umano.
La ghost track posta in chiusura dell’album è un corollario molto più arioso e rallentato, una coda che accoglie gradualmente il field recording di una giornata di sole all’aria aperta, metafora della “polifonia” di ciò che stiamo perdendo – il contatto diretto con lo splendore del mondo. Il nostro oblio di una vita senza macchine non implica che essa non sia mai esistita e che forse, una volta giunti al fondo del vicolo cieco, non possiamo ancora sforzarci di reimmaginarla.
Lema Sabachthani? ‘Why have you forsaken me?’ In Barnett Newman’s artistic and poetic vision, the symbolic power of the Stations of the Cross goes far beyond the devotional tale to which they are historically linked: in them the master of American minimalism sees reflected “each man’s agony: the agony that is single, constant, unrelenting” and which all of us will have to face in a given moment of our existence.
The series of fourteen paintings created between 1958 and 1966 is not a narrative sequence but an expressive unicum which, in its aniconic and achromatic character (thick black traces on white canvas), seemingly aims to condense the silent cry of a universal solitude.
The structure of Sylvain Chauveau’s piano cycle Life Without Machines unfolds symmetrically in relation to Newman’s monumental masterpiece, looking at each painting as a simple yet mysterious graphic score. But, as the title suggests, the French composer has also combined it with a broader reflection on today’s age of machines, an unstoppable development that threatens autonomy and inhibits the capabilities of human beings, now inseparable from the technological appendages by themselves created. Chauveau then wisely entrusted the execution of the work to the profound sensitivity of his compatriot Melaine Dalibert, devoted to the prolonged resonances of the piano as the elements for a dialogue between sound and silence.
Once again it’s impossible not to go back to the lesson of the late Morton Feldman, as Kenneth Goldsmith almost obsessively remarks in the cover notes: the short sequences of single tones, alternating between low and high register, faithfully keep intact the interrogative nature of the pictorial contemplations, synthesizing in few minutes long tracks themes that could extend indefinitely but which instead, likewise to Newman’s cycle, have to be considered in the mutual relationship between a segment and the other surrounding it.
Dalibert’s clear and delicate touch would appear to contrast with the sharpness of the furrows traced on the canvas, which in fact are the sum of many patient brush strokes often fraying beyond the most visible contours. Similarly, Chauveau operates subtle electronic interventions on the acoustic surface of the recording, deforming the vibrant geometries of the piano in an almost imperceptible way, without thereby removing them from their “physical” matrix and indeed, paradoxically, accentuating their fragile humane quality.
The ghost track placed at the end of the album is a much more airy and slowed corollary, a coda that gradually welcomes a field recording of a sunny day in the open air, a metaphor for the “polyphony” of what we are losing – meaning a direct contact with the splendor of the world. Our oblivion of a life without machines does not imply that it never existed and that perhaps, once we reach the bottom of the dead end, we can’t try to reimagine it.

Oscillatorial Binnage – Agitations: Post-Electronic Sounds
Sub Rosa, 2020 | electroacoustic, experimental
Provo enorme interesse e ammirazione per chi si dedica al suono “potenziale” degli oggetti: scienziati e performer in egual misura, ingegnosi sperimentatori che realmente vanno oltre l’apparenza delle cose e vi proiettano la loro curiosità, al fine di estrarre le voci segrete del regno inanimato.
Il quartetto londinese Oscillatorial Binnage opera da oltre quindici anni nel campo dell’improvvisazione e della didattica per indagare e raccontare la relazione tra i materiali di recupero e i campi di forza elettromagnetici, assemblando vere e proprie sculture d’arte povera corrispondenti a sempre nuove e inattese manifestazioni acustiche.
A sette anni di distanza dalla sua incisione, Agitations viene alla luce grazie alla prestigiosa etichetta Sub Rosa con undici tracce di affascinante “post-elettronica”: un panorama d’ipnotica e metamorfica alterità, generato dall’incontro tra il ruvido vibrare di metalli consunti e la luminosa purezza di sine tones lineiformi, tra la sinfonia randomica di clangori industriali e la rigorosa disciplina dello studio di fonologia.
Recipienti indotti a produrre fraseggi di strumenti-fantasma (“Wokfinger Fanfare / Unfanfare”), grezzi segnali radio da satelliti interplanetari (“Subharmonic Ghost Suite”), droni in tutto simili al riverbero di campane tibetane (“Woktones One”) o all’effetto Larsen di vari microfoni (“Lamp Post One”): in ogni conformazione vengono a crearsi variazioni microtonali ed effetti psicoacustici spontanei, tali da tratteggiare paesaggi dalla sorprendente ricchezza di dettagli, per certi versi accostabili alle architetture immaginarie dei ‘Sonambient’ di Harry Bertoia.
Il fervente laboratorio degli Oscillatorial Binnage si apre allo stupore accidentale della materia sonora, e proprio per questo riesce a conservarne il potere evocativo anche nel distacco dai singolari elementi d’origine. L’ascolto di Agitations assume così un carattere rivelatorio e pienamente autonomo, tramutando un’arte installativa multisensoriale in un prodigioso organismo acusmatico.
I have enormous interest and admiration for those who dedicate themselves to the “potential” sound of objects: scientists and performers in equal measure, ingenious experimenters who truly go beyond the appearance of things and project their curiosity into it, in order to extract the secret voices of the inanimate kingdom.
The London quartet Oscillatorial Binnage has been working for more than fifteen years in the field of improvisation and teaching in order to investigate and recount the relationship between recycled materials and electromagnetic force fields, assembling actual ‘poor art’ sculptures corresponding to ever new and unexpected acoustic manifestations.
Seven years after its recording, Agitations comes to light thanks to the prestigious Sub Rosa imprint with eleven tracks of fascinating “post-electronics”: a panorama of hypnotic and metamorphic alterity, generated by the encounter between the rough vibrations of worn metals and the luminous purity of lineiform sine tones, the random symphony of industrial clangors and the rigorous discipline of phonology studios.
Receptacles induced to simulate the phrasing of ghost-instruments (“Wokfinger Fanfare / Unfanfare”), rough radio signals from interplanetary satellites (“Subharmonic Ghost Suite”), drones in all similar to the reverberation of Tibetan bells (“Woktones One”) or to the Larsen effect of various microphones (“Lamp Post One”): microtonal variations and spontaneous psychoacoustic effects arise in each conformation, such as to sketch landscapes surprisingly rich in detail, somewhat comparable to the imaginary architectures of Harry Bertoia’s ‘Sonambient’.
The fervent laboratory of Oscillatorial Binnage opens up to the accidental wonder of sound matter, and for this same reason it manages to retain its evocative power also when detached from its singular elements of origin. Listening to Agitations thus takes on a revelatory and fully autonomous character, transforming a multisensory installation art into a prodigious acousmatic organism.

SEC_ & Tricatiempo – La Tana
Subincision, 2020 | eai, free impro
Ogni atto artistico è a suo modo una rappresentazione, e ogni rappresentazione è una narrazione – sia essa condensata su una superficie immota o sviluppata nel tempo e nello spazio. Nell’arte improvvisativa accade che l’intuizione di partenza sia specifica, ma gli esiti siano del tutto affidati al caso e alla percezione del singolo: perciò poco importa se lo spunto proviene da Kafka (come accade per La Tana) o da Ballard, Burroughs, Palahniuk.
L’unico elemento oggettivo è quello formale, e non ci sono dubbi che la presente sessione – registrata nell’aprile del 2016 presso il KU Studio di Napoli – sia forgiata nel dinamismo allucinato di una cruenta battaglia tra impulsi acustici ed elettronici, il caos controllato di due eccellenti performer della scena partenopea.
SEC_ (Mimmo Napolitano) è forse il principale esponente del ritorno alla strumentazione analogica che ha interessato una nuova generazione di sperimentatori italiani (da Valerio Tricoli al duo Les Énervés), con particolare riferimento all’utilizzo del nastro Revox come medium d’elezione per una manipolazione diretta del suono. Il batterista e percussionista Stefano Costanzo trae dal suo gruppo e album del 2013 il moniker Tricatiempo, di ritorno nel catalogo della Subincision Records dopo un Ep con il duo Cadaver Mike.
Uno stridore di metalli e vari loop di tracce in reverse introducono la lunga “Riflessioni per cadaveri”, uno scenario sinistro e pensoso di mutazioni elettroacustiche che negli ultimi minuti sfocia in una furia noise al crocevia tra i Pan Sonic a valvole spalancate e le incarnazioni più massimaliste dei Supersilent. Prende così avvio una successione di sequenze ulteriormente deviate e abrasive, stanze del delirio nelle quali si consumano pazienti torture psichiche (“Tra l’orologio e il letto”, “Machines like me”) e assalti di efferata fisicità impro (“Marvelous clouds”).
La Tana è un asfittico luogo della mente, talvolta rovesciato su se stesso (“Il resto indivisibile”), talaltra messo completamente a soqquadro (“Tempo”), al punto che le sorgenti sonore arrivano a fagocitarsi l’una con l’altra: i nastri si impossessano delle esagitate ritmiche post-jazz di Costanzo e le accelerano oltre il limite umano, innescando un processo di implosione che ormai appare inevitabile. SEC_ e Tricatiempo sono poeti del nichilismo e questo è il loro traumatico manifesto, le cui porte si spalancano di fronte al nostro libero arbitrio immaginativo.
Every artistic act is a representation in its own way, and every representation is a narration – be it condensed on a motionless surface or developed in time and space. In the art of improvisation it happens that the primary intuition is specific, but the results are entirely entrusted to chance and to the perception of the individual: therefore it doesn’t matter if the cue comes from Kafka (as is the case with La Tana) or from Ballard, Burroughs, Palahniuk.
The only objective element is the formal one, and there’s no doubt that the present session – recorded in April 2016 at the KU Studio in Naples – is forged in the hallucinated dynamism of a bloody battle between acoustic and electronic impulses, the controlled chaos of two excellent performers from the Parthenopean scene.
SEC_ (Mimmo Napolitano) is perhaps the main exponent of the return to analog instrumentation that has affected a new generation of Italian experimenters (from Valerio Tricoli to the Les Énervés duo), with particular reference to the use of Revox tape as the medium of choice for a direct manipulation of sound. Drummer and percussionist Stefano Costanzo draws the moniker Tricatiempo from his group and album from 2013, returning to the catalog of Subincision Records after an Ep with the duo Cadaver Mike.
A screeching of metals and various loops of reversed tracks introduce the long “Riflessioni per cadaveri” (‘Reflections for cadavers’), a sinister and pensive scenario of electroacoustic mutations that in the last minutes leads to a noise fury at the crossroads between Pan Sonic with their valves open wide and the more maximalist incarnations of Supersilent. Thus begins a succession of further deviated and abrasive sequences, chambers of delirium in which patient psychic tortures (“Tra l’orologio e il letto”, “Machines like me”) and brutal assaults of impro physicality (“Marvelous clouds”) are being committed.
La Tana is an asphyctic place of the mind, sometimes turned upside down (“Il resto indivisibile”), sometimes utterly ransacked (“Tempo”), to the point that the sound sources go on to engulf each other: the tapes take possession of Costanzo’s agitated post-jazz rhythms and accelerate them beyond the human limit, triggering a process of implosion that by now seems to be inevitable. SEC_ and Tricatiempo are poets of nihilism and this is their traumatic manifesto, whose doors open wide in front of our imaginative free will.