Weekly Recs | 2020/15

Horse Lords – The Common Task (Northern Spy, 2020)

OWL – Mille Feuille (Sofa Music, 2020)

Lina Andonovska – A Way A Lone A Last (Diatribe, 2020)



Horse Lords – The Common Task

Northern Spy, 2020 | art/math rock


Un nuovo sublimante radicalismo attraversa le file dell’Art Rock contemporaneo, tra recuperi math e inedite ibridazioni di genere: basti pensare alle furiose cavalcate dei Liturgy, alla chimera rampante Black Midi e agli stessi Horse Lords, già sulla scena da un decennio ma solo ora prossimi al giusto riconoscimento presso il pubblico indie. Un atto di forza, quello delle summenzionate band, ma pervaso di un’energia primordiale e quasi neutrale, anti-valoriale, un nuovo totalismo teso alla trascendenza. 

Discorso valido solo in parte la band di Baltimora, che conserva tra le righe del suo entusiasmo un preciso intento politico, pur senza declamare alcuno slogan, affidandosi al puro drive ritmico e tonale della loro formula. Non è un invito alla sovversione, si direbbe, quanto alla presa di coscienza del valore intrinseco di ciascun individuo, della sua necessaria e inalienabile facoltà di fare la differenza. 
Il mutevole ma esattissimo incastro dei loro pattern serrati – memori delle sghembe geometrie dei Don Caballero – fa sì che ogni ritmo, ogni linea melodica possa essere presa alternamente in considerazione dall’orecchio e da tutto il corpo, come travolto da una danza incontenibile. Il sassofono insegue le vorticose e solipsistiche traiettorie del primo Colin Stetson (“Against Gravity”) mentre basso e batteria sorreggono stoicamente l’intero impianto con una spinta gioiosa in stile motorik. L’interludio per cornamusa “The Radiant City” – un nuovo inno nazionale? – interrompe brevemente il moto spasmodico del quartetto, che chiude la prima metà del disco con un feel-good tune africaneggiante ricco di percussioni tonali (“People’s Park”). 

Ma è un vero e proprio cambio di facciata quello che ci attende al principio del lato B: fiati e voce femminile intonano rade armonie riduzioniste attraversate da sprazzi di musique concrète, collocandosi agli antipodi di quanto ascoltato sinora. Un preludio tanto anomalo quanto poetico, atto a rafforzare il contrasto con il graduale rientro della formazione: al settimo minuto lo stoppato della chitarra anticipa l’arrivo di una sezione ritmica più discreta ma quantomai compatta, quasi in diligente marcia in direzione della sommità del climax, un’ascensione verticale verso l’abbacinante estasi di un puro shift tonale elettronico che va oltre le possibilità della strumentazione rock. È il simbolo di quell’utopia collettiva (The Common Task) che gli Horse Lords invocano con gioiosa intransigenza e che, al termine delle danze, siamo noi a dover immaginare e inseguire.


A new sublimating radicalism traverses the ranks of contemporary Art Rock, between math rediscoveries and unprecedented hybridizations of genres: just think of Liturgy’s furious cavalcades, the rampant chimera Black Midi and the Horse Lords themselves, already on the scene for a decade but only now close to receive due recognition among indie audiences. An act of force, that of the aforementioned bands, but pervaded by a primordial and almost neutral, anti-value energy, a new totalism committed to transcendence.
A viewpoint only partially valid for the band from Baltimore which, between the lines of its enthusiasm, maintains a precise political intent, even without declaiming any slogan, relying on the pure rhythmic and tonal drive of their formula. Theirs is not an invitation to subversion, one might say, but instead to the awareness of each individual’s intrinsic value, of his necessary and inalienable faculty to make a difference.
The ever-changing and exact interlocking of their tight patterns – reminiscent of Don Caballero’s crooked geometries – allows every rhythm, every melodic line to be alternately taken into consideration by the ear and the whole body, seemingly overwhelmed by an irrepressible dance. The saxophone follows the swirling and solipsistic trajectories of the early Colin Stetson (“Against Gravity”) while bass and drums stoically support the entire system with a joyful motorik-style boost. The interlude for bagpipe “The Radiant City” – a new national anthem? – briefly interrupts the spasmodic moves of the quartet, which closes the first half of the disc with an African feel-good tune full of tonal percussions (“People’s Park”).
But what awaits us at the start of side B is an actual change of facade: wind instruments and a female voice intone sparse reductionist harmonies crossed by flashes of musique concrète, placing themselves at the antipodes of what has been heard so far. A prelude as anomalous as poetic, capable of reinforcing the contrast with the gradual return of the line-up: at minute seven the palm-muted guitar anticipates the arrival of a more discreet but very compact rhythmic section, almost in diligent march towards the top of the climax, a vertical ascent bound for the dazzling ecstasy of a pure electronic tonal shift that goes beyond the possibilities of rock instrumentation. It’s the symbol of that collective utopia (The Common Task) that the Horse Lords invoke with joyful intransigence and that, once the dances end, it’s up to us to imagine and chase.


OWL – Mille Feuille

Sofa, 2020 | free impro, eai


La libera improvvisazione, o ‘musica spontanea’, ha man mano reso lecite forme di dialogo inortodosse e, dalle azioni dirompenti delle avanguardie novecentesche, si è ora assestata su un’espressione più quieta e finanche “poetica”, senza per questo incorrere in schemi collaudati. Nel confronto tra strumentazione classica ed elettronica c’è ancora ampio spazio di indagine, e le pubblicazioni della Sofa Music di Ingar Zach non cessano di offrircene la dimostrazione. 
Questa volta è il debutto di una formazione a due: OWL sono la danese Signe Emmeluth (sax alto, elettronica, flauti, percussioni) e il norvegese Karl Bjorå (chitarra, elettronica, percussioni) entrambi con base a Oslo e sotto i trent’anni d’età; le loro esplorazioni sonore si sono dipanate durante una residenza di tre giorni nel piccolo comune di Hemnes, il cui distillato ritroviamo nelle sei tracce di Mille Feuille.

Come tanti giovani strumentisti scandinavi, anche Emmeluth e Bjorå si sono spesi in varie formazioni d’ambito avant-jazz, oltre che in progetti sperimentali propri: ma l’approccio adottato in queste sessioni – come d’altronde è consuetudine nel catalogo Sofa – lascia quasi del tutto da parte i tratti riconoscibili delle loro esperienze pregresse per rifondare da zero un linguaggio comune, valido soltanto nel ‘qui e ora’ della composizione non premeditata.
E cosa accade, quando si fa idealmente tabula rasa? Quantomeno che i ruoli si confondono, o addirittura si invertono: talvolta l’afonia e la drastica destrutturazione lessicale del sassofono fanno sì che, per contrasto, i ronzii e le modulazioni dei live electronics diventino quasi “cantabili”, un cinguettio artificiale relativamente più rassicurante. 

Gli arpeggi della chitarra elettrica in riverbero sono l’elemento mediano, il placido piano d’appoggio della suite che occupa il lato A (“Upon Arrival You Forgot Why You Left”), un graduale addentrarsi nella selva oscura dell’astrazione sonora, tra cellule motiviche in loop e sottili manipolazioni delle frequenze vaganti tra i canali stereo. 
L’ermetismo espressivo si allenta subito dopo con “On the Lookout”, armonia luminosa percorsa da fischi a metà fra l’ornitologico e il ferroviario, mentre per la prima volta in “Let’s Crackle” il sax insorge con l’impeto di un Anthony Braxton o Evan Parker assieme agli altrettanto ruvidi segnali elettroacustici, contrappuntati dagli accordi interrogativi della chitarra – molto spesso rassomiglianti a quelli dell’ex compagno d’etichetta Kim Myhr (ora fedelissimo a Hubro).

Tra variazioni più o meno giocose, negli ultimi brani il duo sèguita a divagare declinando a piacere la fraseologia “incontrata” in questo frangente, per ricollegarsi infine al mood sospeso della prima traccia (“Consensus, Time to Leave”): così si chiude coerentemente il cerchio sulle sessioni dell’ottobre 2018, un buon punto di partenza per tracciare l’identikit di un duo ancora tutto da inventare.


Free improvisation, or ‘spontaneous music’, has gradually legitimized unorthodox forms of dialogue and, thanks to the disruptive action of the twentieth-century avant-gardes, has now settled on a quieter, even “poetic” expression, without having to resort to already tested schemes. In the confrontation between classical and electronic instruments there’s still ample room for investigation, and the releases of Ingar Zach’s Sofa Music never cease to prove it.
This time it’s the debut of a duo line-up: OWL are the Danish Signe Emmeluth (alto sax, electronics, recorders, percussion) and the Norwegian Karl Bjorå (guitar, electronics, percussion) both based in Oslo and under-30; their sound explorations unraveled during a three-day residence in the small town of Hemnes, whose distillate we find in the six tracks of Mille Feuille.
Like so many young Scandinavian instrumentalists, also Emmeluth and Bjorå have spent themselves in various avant-jazz ensembles, as well as in experimental projects of their own: but the approach adopted in these sessions – as is customary in the Sofa catalog – leaves almost completely aside the recognizable features of their previous experiences to refound from scratch a common language, valid only in the ‘here and now’ of non-premeditated composition.
And what happens when you ideally make a clean slate? At least that the roles get confused, or even reversed: sometimes the aphonia and the drastic lexical destructuring of the saxophone are such that, by contrast, the hums and modulations of live electronics almost become “cantabili”, a relatively more reassuring artificial chirping.
The reverberated arpeggios of the electric guitar are the median element, the placid surface of the suite that occupies side A (“Upon Arrival You Forgot Why You Left”), a gradual penetration into a dark forest of sound abstraction, with looped motivic cells and subtle manipulations of the frequencies roaming between the stereo channels. 
The expressive hermeticism is loosened soon after with “On the Lookout”, a luminous harmony traversed by whistles both ornithological and train-like, while for the first time in “Let’s Crackle” the sax arises with the impetus of an Anthony Braxton or Evan Parker together with the equally rough electroacoustic signals, counterpointed by the interrogative chords of the guitar – very often resembling those of the former label mate Kim Myhr (now a loyal acolyte of Hubro).
In the last tracks the duo continue to wander between more or less playful variations, declining at will the phraseology “encountered” at this juncture, finally reconnecting to the suspended mood of the first track (“Consensus, Time to Leave”): thus reaching a coherent closure on the sessions recorded in October 2018, a good starting point to trace the identikit of a duo still to be invented.


Lina Andonovska – A Way A Lone A Last

Diatribe, 2020 | contemporary classical


Nella nuova composizione sta sorgendo la generazione degli “eclettici nativi”: autori che sembrano intraprendere gli studi accademici avendo già in mente di disattenderli, scompaginarli e contaminarli in maniera virulenta, per rifondare la scrittura classica senza più accettare alcuna limitazione. Basta ascoltare “Hox” (2018-19) di Barry O’Halpin, per flauto basso amplificato e batteria, per capire che la carta pentagrammata fatica ormai a contenere una spinta creativa così terrea e primordiale, tale da richiedere lo sviluppo di forme virtuosistiche altrettanto inedite.

Per questo motivo, nel dominio degli “eclettici nativi”, il legame tra compositore e interprete diviene spesso simbiotico: entrano così in gioco figure come quella della giovane flautista australiana Lina Andonovska, talento onnivoro da solista o nel duo SlapBang con Matthew Jacobson (protagonista della summenzionata e dell’ultima traccia); un amalgama di devozione e irrequietezza in rapporto alle inesauste potenzialità del suo strumento, tra i fondamentali punti di contatto con la musica pre-civilizzata. I brani seguenti divengono dunque il terreno di prova di una versatilità che vorrebbe far propri tutti gli stili e assieme valicarne i confini, passando dalla poliglossia alla neologia.

Adattamento dell’opera per trio di flauti dolci che presta il titolo all’album, “A Loved A Long” (2017) di Nick Roth è la traduzione impossibile del finale di “Finnegans Wake”, il supremo enigma post-letterario di Joyce: un pastiche inestricabile di parole sussurrate nell’imboccatura, richiami fauneschi alla Sciarrino e frammenti di memoria popolare – compaiono due volte le prime note della più classica tarantella napoletana.
Dallo stesso autore la lunga e conclusiva “Bátá” (2017), dove i ritmi accelerati della batteria rimangono l’unico elemento esplicito, mentre il flauto è ridotto all’ombra del suo feedback e Andonovska cita con parole sparse il concetto di ‘distassia’ introdotto da Roland Barthes nel suo saggio “Image Music Text”.

Commissionato all’irlandese Donnacha Dennehy dalla stessa interprete, “Bridget” (2019) è intitolato alla Op-Artist britannica Bridget Riley, le cui visioni schematiche di rombi colorati e pattern in bianco e nero sono trasposte in un brillante e disorientante dialogo tra Andonovska e diverse tracce di flauto stratificate tutt’intorno, un melodico baluginìo simile ai riflessi del sole sulle increspature di un’ampia distesa d’acqua. 
Arabeschi destrutturati e tecniche estese ai limiti estremi della tonalità si intrecciano in “A Breath of Fresh Air” (2019) di Judith Ring, giocato sull’utilizzo di consonanti come veicolo di una fonetica sdoppiata: è la musica di un nuovo idioma universale in cui le sensazioni non sono più prigioniere di una scrittura rigorosa e univoca, il significante si apre alla pluralità di significati.


In new composition, a generation of “native eclectics” is emerging: authors who seem to undertake academic studies already having in mind to disregard, disrupt and contaminate them in a virulent way, in order to refound classical writing without accepting any limitations. Just listen to “Hox” (2018-19) by Barry O’Halpin, for amplified bass flute and drums, and you’ll understand that the pentagram is now struggling to contain so earthly and primordial a creative drive, such as to require the development of forms of virtuosity just as new.
For this reason, in the domain of “native eclectics”, the bond between composer and performer often becomes symbiotic: figures such as that of the young Australian flutist Lina Andonovska, an omnivorous talent as a soloist or in the SlapBang duo with Matthew Jacobson (protagonist of the aforementioned and the last track); an amalgam of devotion and restlessness in relation to the inexhaustible potential of her instrument, one of the fundamental contact points with pre-civilized music. The following tracks therefore become the testing ground for a versatility that aims to embrace all styles and at the same time cross their borders, reaching from polyglossia to neology.
An adaptation of the work for recorders trio that lends its title to the album, Nick Roth’s “A Loved A Long” (2017) is the impossible translation of the ending lines of “Finnegans Wake”, Joyce’s supreme post-literary enigma: a inextricable pastiche of words whispered in the mouthpiece, faunal calls à la Sciarrino and fragments of popular memory – the first notes of the most classic Neapolitan tarantella appear twice.
From the same author is the long and conclusive “Bátá” (2017), where the accelerated rhythms of the drums remain the only explicit element, while the flute is reduced to the shadow of its feedback and Andonovska recites in sparse words the concept of ‘dystaxia’, introduced by Roland Barthes in his essay “Image Music Text”.
Commissioned to the Irish composer Donnacha Dennehy by the interpreter herself, “Bridget” (2019) is named after British Op-Artist Bridget Riley, whose schematic visions of colored rhombuses and black-and-white patterns are transposed into a brilliant and disorientating dialogue between Andonovska and several flute tracks layered all around, a melodic glimmer similar to the reflections of the sun on the ripples of a large expanse of water. 
Deconstructed arabesques and extended techniques at the extremes of tonality intertwine in Judith Ring’s “A Breath of Fresh Air” (2019), based on the use of consonants as vehicles for a doubled phonetic: it’s the music of a new universal idiom in which the sensations are no longer prisoners of a rigorous and univocal writing, the signifier opening itself to a plurality of meanings.

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