Weekly Recs | 2020/13

Giulio Aldinucci – Shards of Distant Times (Karlrecords, 2020)

♢ [v.a.] See You at Ftarri (Meenna, 2020)

Max de Wardener – Music for Detuned Pianos (Village Green, 2020)

Jen Hill & Claire Rousay – Alcohol (Heavy Mess, 2020)



Giulio Aldinucci – Shards of Distant Times

Karlrecords, 2020 | ambient/drone

Giunto al terzo album con la tedesca Karlrecords – dopo lo splendido No Eye Has an Equal (99chants, 2019), detour d’etichetta ma non di stile – il senese Giulio Aldinucci sembra portare a definitivo compimento la cristallizzazione della sua più recente e gloriosa veste espressiva.
Se nel dittico di Borders and Ruins (2017) e Disappearing In a Mirror (2018) la musica corale del Rinascimento rappresentava la chiave di volta per una sorta di collasso spazio-temporale della composizione atmosferica, spalancando scenari potentemente cinematici, in Shards of Distant Times essa diviene a tutti gli effetti una materia prima, non più una suggestione bensì l’elemento guida di una narrazione che dall’universale si riavvicina alla dimensione individuale. 

A partire dai titoli delle tracce, le epoche lontane evocate nell’intensa scrittura ambient di Aldinucci ci parlano della memoria e dell’oblio personali, di figure, oggetti e segni la cui sacralità si è dissolta, lasciando tracce consunte e inerti che sembrano poter tornare alla vita solamente attraverso l’esasperazione del loro simulacro artistico.
Le profondità abissali dei precedenti lavori su Karlrecords – foriere di un messaggio tragico e allarmante sulla conflittualità interiore ed esteriore del nostro presente – si riversano ora nell’iridescenza di uno sguardo sommamente malinconico, come l’immagine rallentata all’estremo della palla di vetro di Charles Foster Kane che sfugge alla presa e cade al suolo, allontanandosi inesorabile nel suo luccichìo irreale. 

Difficile che in una tale messa a nudo del sé artistico si celi ancora del potenziale inespresso: lo zenit autoriale di Aldinucci si colloca all’ossimorico crocevia tra l’astrazione formale e la debordante vividezza del sentire, un equilibrio che solo lo stretto contatto con la propria interiorità garantisce ai più eccellenti interpreti di andare oltre loro stessi e sublimare. Si compie il tempo in cui l’attuale scena elettronica dovrà riconoscere l’ineludibile voce di uno dei suoi talenti più costanti e distintivi.


Now at his third album with the German imprint Karlrecords – after the splendid No Eye Has an Equal (99chants, 2019), a change of label but not of style – the Sienese Giulio Aldinucci seems to bring to completion the process of crystallization of his most recent and glorious expressive guise.
If in the diptych formed by Borders and Ruins (2017) and Disappearing In a Mirror (2018) the choral music from the Renaissance represented the keystone for a sort of space-time collapse in his atmospheric composition, opening up powerfully cinematic scenarios, in Shards of Distant Times it becomes a raw material to all intents and purposes, no longer a suggestion but rather the guiding element of a narrative that proceeds from the universal dimension to approach an individual one.
Already from the track titles, the distant eras evoked in Aldinucci’s intense ambient writing speak to us about personal memory and oblivion, of figures, objects and signs whose sacredness has dissolved, leaving worn and inert traces that seemingly manage to return to life only through the exasperation of their artistic simulacrum.
The abysmal depths of previous works on Karlrecords – harbingers of a tragic and alarming message about the inner and outer conflicts of our present – now pour into the iridescence of a supremely melancholy gaze, like the slowed down image of Charles Foster Kane’s glass ball escaping his grip and falling to the ground, moving inexorably away in its unreal twinkle.
It is quite unlikely that an unfulfilled potential still hides in such a stripping of the artistic self: Aldinucci’s authorial zenith is situated at the oxymoronic crossroads between formal abstraction and the overflowing vividness of feeling, a balance that only close contact with their interiority guarantees the most excellent interpreters to go beyond themselves and sublimate. The time has come when today’s electronic scene will have to recognize the unavoidable voice of one of its most constant and distinctive talents.


See You at Ftarri

J. Hirose / mizutama / K. Nakada / T. Nakamura / D. Takaoka / Y. Takeshita / T. Yonago
Meenna, 2020 | eai

Coloro che visitano da turisti la capitale giapponese sono solitamente attratti dalla sua sfavillante e gargantuesca dimensione metropolitana, tra gli emblemi di uno scenario urbano iper-sviluppato e -stimolante, caoticamente immersivo. Se io, d’altra parte, avrò mai l’occasione di trovarmi a Tokyo non mancherò di recarmi, piuttosto, in uno dei locali che tuttora rappresenta un ritrovo irrinunciabile per gli esponenti delle avanguardie musicali nazionali.
Il nome Ftarri evoca una pletora di figure mitiche che hanno contribuito agli sviluppi più radicali nell’ambito dell’elettroacustica, dell’onkyo e della nuova composizione “classica”, tra ospiti occasionali e veri e propri residents, infaticabili nello sperimentare e rimettersi in discussione con combinazioni sempre nuove tra strumenti inusuali, spesso a dir poco eterodossi.

Edito dalla label “gemella” Meenna, il disco live See You at Ftarri documenta tre performance – due delle quali in duo, l’ultima in trio – tenutesi l’11 agosto del 2019 in questo piccolo santuario dell’improvvisazione: una sintesi pregnante, per quanto inevitabilmente parziale, delle alterità espressive che si agitano con discrezione nel più profondo underground nipponico. Aprono la kermesse mizutama e Toshimaru Nakamura: quest’ultimo, per chi conosce il settore, non ha praticamente bisogno di presentazioni in quanto semi-leggendario inventore della no-input mixing board, i cui toni sommessi distendono un grigio panorama sonoro sul quale interviene mizutama con l’utilizzo di snap circuits; i colorati kit prodotti negli Stati Uniti per insegnare ai più piccoli i rudimenti dell’elettronica divengono un nuovo “grado zero” della creazione sonora, dispiegata assieme a Nakamura in una performance lineare, che dalla piattezza dei segnali introduttivi si sviluppa man mano in concrezioni pulsanti, forme di vita elementari dalle voci timide e sgraziate.

Nel secondo brano, la respirazione circolare e gli ondeggiamenti microtonali della tuba di Daysuke Takaoka dialogano con l’ingegno tecnico del sound artist Tadashi Yonago, che direziona la luce artificiale di una torcia verso uno “spruzzatore” automatico da giardino, del quale riesce a modulare l’acuto ronzio metallico in fase di rotazione. 
La sessione finale di trenta minuti è un serrato interplay non-musicale tra Junji Hirose, Kayu Nakada e Yuma Takeshita: il primo agisce su una specifica conformazione del suo Self-made Sound Instrument (SSI-4), un apparato costituito da elementi di biciclette, ferraglie e altri oggetti d’uso quotidiano; il secondo modula l’output di uno dei suoi “bug synthesizers”, i cui circuiti sono stati modificati manualmente per introdurre elementi di indeterminazione nella resa sonora; il terzo “suona” una chitarra basso modificata elettronicamente. La crescente intensità dei clangori di Hirose guida la performance verso un climax collettivo che, procedendo dal riduzionismo elettroacustico di certe storiche registrazioni a marchio Erstwhile, giunge a un’ipnotica stereofonia noise di segnali radio impazziti, feedback multiformi e ruggiti meccanici.


Those who visit the Japanese capital as tourists are usually attracted by its sparkling and gargantuan metropolitan dimension, among the emblems of an hyper-developed and -stimulating, chaotically immersive urban scenario. On my part, if I’ll ever have the chance to find myself in Tokyo, without fail I’ll go to one of the clubs which still represents a fundamental meeting place for the exponents of the national musical avant-garde.
The name Ftarri evokes a plethora of mythical figures who have contributed to the most radical developments in the field of electroacoustics, onkyo and new “classical” composition, occasional guests as well as veritable residents, tirelessly experimenting and questioning themselves with ever new combinations of often unusual – heterodox to say the least – instruments.
Published by the “twin” label Meenna, the live album See You at Ftarri documents three performances – two of which in duo, the last in trio – held on August 11th 2019 in this small improvisation sanctuary: it’s a poignant, although inevitably partial synthesis of the expressive alterities that move discreetly in the deepest Japanese underground.
The event is inaugurated by mizutama and Toshimaru Nakamura: the latter, for those familiar with the sector, practically needs no introduction, being the semi-legendary inventor of the ‘no-input mixing board’, whose subdued tones sketch a gray soundscape on which mizutama intervenes with the use of ‘snap circuits’; the colorful kits produced in the United States to teach children the rudiments of electronics become a new “zero degree” of sound creation, deployed together with Nakamura in a linear performance, which from the flatness of the introductory signals gradually develops into pulsating concretions, elementary life forms with timid and ungainly voices.
In the second piece, the circular breathing and microtonal sways of Daysuke Takaoka’s tuba dialogue with the technical ingenuity of sound artist Tadashi Yonago, who directs the artificial light of a torch towards an automatic garden sprinkler, of which he manages to modulate the sharp metallic hum during the rotation phase.
The final thirty-minute session presents a tight non-musical interplay between Junji Hirose, Kayu Nakada and Yuma Takeshita: the first acts on a specific conformation of his ‘Self-made Sound Instrument’ (SSI-4), an apparatus consisting of bicycle elements, scrap metal and other everyday objects; the second modulates the output of one of his ‘bug synthesizers’, the circuits of which have been manually modified to introduce elements of indeterminacy in the sound performance; the third “plays” an electronically modified bass guitar. The growing intensity of Hirose’s clangs drives the performance towards a collective climax which, proceeding from the electroacoustic reductionism of certain historical recordings on Erstwhile, reaches a hypnotic noise stereophony of out-of-control radio signals, multiform feedback and mechanical roars.


Max de Wardener – Music for Detuned Pianos

Village Green, 2020 | modern classical, experimental

L’istituzione secolare di una ‘giusta intonazione’ (detta anche ‘pura’, ‘naturale’) tende a scoraggiare l’idea di infinite altre possibilità di accordatura degli strumenti: autori visionari come Harry Partch e La Monte Young, a loro tempo, hanno indicato alla cultura occidentale la strada per mettere in discussione questa sorta di tirannia accademica; più in generale, la sperimentazione e l’improvvisazione rimangono percorsi utili a facilitare la serendipità e, con una sufficiente costanza, ad apprendere come commettere gli “errori giusti”, aprendo nuove prospettive all’espressione musicale.

L’approccio del compositore britannico Max de Wardener non ha l’intento dirompente delle “Sonatas and Interludes” di Cage né l’afflato mistico del ‘well-tuned piano’ del succitato Young: i dieci brani raccolti in questo album edito da Village Green sono studi che ambiscono a far confluire ciò che nasce “inesatto” in una normalità espressiva rinnovata e ampliata, arricchita di sfumature anziché volutamente deviata in territori disagevoli.
La ripetizione di semplici pattern ritmici e melodici di matrice minimalista fa sì che, con poche modifiche d’intonazione su alcuni tasti, lentamente l’orecchio si abitui a quei semitoni che nondimeno trasformano sensibilmente la percezione acustica, arrivando a suggerire ciò che nella realtà sensoriale quotidiana si distorce per effetto della distanza spaziale o con le alterazioni – siano esse spontanee o indotte – che il nostro organismo sperimenta in determinate circostanze.

Tra l’ingegnoso dinamismo di Volker “Hauschka” Bertelmann e il neo-romantico Nils Frahm, la precisa calibrazione adottata da De Wardener passa per il tocco altrettanto misurato di Kit Downes, principalmente attivo nello scorso decennio sino alla pubblicazione di due album a firma propria con la prestigiosa ECM. Con l’ausilio di occasionali filtri deformanti (“Redshift”), stratificazioni ed effetti di riverbero artificiale (“Deranged Landscape”, “Spell”), Music for Detuned Pianos giunge alla meraviglia per vie oblique e inaspettate, invitandoci alla scoperta di uno spettro emozionale che la musica classica ci ha troppo a lungo celato.


The secular institution of a ‘just intonation’ (also referred to as ‘pure’, ‘natural’) tends to discourage the idea of infinite other tuning possibilities for instruments: back in their day, visionary authors such as Harry Partch and La Monte Young showed western culture the way to question this sort of academic tyranny; more generally, experimentation and improvisation remain useful paths to facilitate serendipity and, with sufficient constancy, to learn how to make the “right mistakes”, opening up new perspectives on musical expression.
The approach of the British composer Max de Wardener doesn’t have the disruptive intent of Cage’s “Sonatas and Interludes” nor the mystical inspiration of the aforementioned Young’s ‘well-tuned piano’: the ten tracks presented in this album published by Village Green are studies that aim to channel what is born “inexact” in a renewed and expanded expressive norm, enriched in its nuances rather than deliberately diverted into uncomfortable territories.
The repetition of simple rhythmic and melodic patterns of minimalist matrix makes sure that, with a few pitch changes on some keys, the ear slowly gets used to those semitones that nevertheless significantly transform the acoustic perception, coming to suggest what in the sensory reality of everyday life gets distorted by effect of spatial distance or the alterations – be they spontaneous or induced – that our organism experiences in certain circumstances.
Between the ingenious dynamism of Volker “Hauschka” Bertelmann and the neo-romantic Nils Frahm, the precise calibration adopted by De Wardener passes through the equally measured touch of Kit Downes, mainly active in the last decade up to the publication of two albums in his own name for the prestigious ECM. With the help of occasional deforming filters (“Redshift”), layerings and artificial reverberation effects (“Deranged Landscape”, “Spell”), Music for Detuned Pianos reaches wonder in oblique and unexpected ways, inviting us to discover an emotional spectrum that classical music has hidden from us for too long.


Jen Hill & Claire Rousay – Alcohol

Heavy Mess, 2020 | sound art, experimental electronic

Decostruzione e provvisorietà sono i tratti che accomunano diverse propaggini della sound art odierna, costellata di singoli autori e progetti one-off dall’estetica inafferrabile, soggetti a una fluidità e a una mutevolezza che appaiono persino più rapidi di quanto il supporto di registrazione sia in grado di documentare.
Entrambi in certo modo legati alla bassa fedeltà e all’ispirazione momentanea, non pianificata, Jen Hill (Chicago) e Claire Rousay (San Antonio) arrivano con la traccia unica Alcohol quanto più vicini alla formulazione di un para-linguaggio inusitato, all’eccentrico e instabile punto d’incontro tra asmr, field recording e la più febbrile manipolazione elettronica.

I sussurri anti-lessicali di Rousay in prossimità del microfono vengono infinitamente parcellizzati e mescolati entro una fotografia sonora messa completamente a soqquadro. Oggetti di metallo e di legno, piccoli campanelli, il discontinuo scrosciare di una doccia, la grana sonora stessa di una presa diretta probabilmente effettuata con un comune smartphone – suggeriscono in maniera del tutto randomica uno scorcio di vita immaginaria, forse tra le pareti di una stanza d’albergo incontrata in sogno. 

Conceptronica lynchiana? Nel momento stesso in cui vi sforzate di incollare un’etichetta verosimile su questo lavoro, esso vi sarà già sfuggito tra le mani per poi apparire del tutto diversamente all’ascolto successivo. Forse allora il procedimento compositivo di Alcohol è molto più metodico di quanto non appaia, nella caotica giuntura di frammenti che sembrano in grado di eludere la fissità del taglio finale. In questi venti minuti potrebbe essere condensata la segreta essenza dell’astrazione sonora a venire.


Deconstruction and impermanence are the traits that unite different offshoots of today’s sound art, dotted with individual authors and one-off projects with an elusive aesthetics, subject to a fluidity and a mutability apparently even faster than the recording medium is capable of documenting.
Both in their own way linked to low fidelity and a fleeting, unplanned inspiration, Jen Hill (Chicago) and Claire Rousay (San Antonio) get with the single track Alcohol as close as possible to the formulation of an outlandish para-language, at the eccentric and unstable meeting point between asmr, field recording and the most feverish electronic manipulation.
Rousay’s anti-lexical whispers close to the microphone are infinitely fragmented and mixed within a sound photograph turned completely upside down. Metal and wooden objects, tiny bells, the intermittent water rushes of a shower, the very grain of a live sound recording probably made with a common smartphone – suggest in a completely random way a glimpse of imaginary life, perhaps behind the walls of a hotel room visited in a dream.
Lynchian Conceptronica? By the time you try to glue a plausible label on this work, it will have already slipped through your hands to later appear in a whole different form at the next listening. Perhaps, then, the compositional process of Alcohol is much more methodical than it appears, showcasing a chaotic junction of fragments that seem able to evade the fixity of the final cut. In these twenty minutes may well be condensed the secret essence of sound abstraction to come.

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