Sofa Music: LEMUR + Reinhold Friedl || Martin Taxt

LEMUR + Reinhold Friedl – Alloy (2020)

Martin Taxt – First Room (2020)



LEMUR + Reinhold Friedl
Alloy

Sofa Music, 2020 | free impro


Dalla metà del Novecento in poi, le avanguardie hanno tenuto a ricordarci che il pianoforte era e rimane uno strumento percussivo: va da sé che le sue potenzialità timbriche, estrinsecate tramite preparazioni e tecniche estese d’ogni sorta, risulteranno essere più numerose e diversificate rispetto ad altri strumenti classici, quasi tutti già “rivisitati” dal repertorio contemporaneo. Con tale consapevolezza il pianista e compositore Reinhold Friedl ha lavorato stoicamente per colmare il divario tra il rigore del mondo accademico e la furia iconoclasta del più estremo underground musicale, trasformando il suo ensemble zeitkratzer in una delle realtà più coraggiose e innovative dei giorni nostri.
L’incontro con il quartetto norvegese Lemur si fonda sul riconoscimento della creazione sonora come pratica preesistente al concetto di ‘musica’: in Alloy si dispiega un linguaggio atavico regolato unicamente dalla scoperta serendipitosa di fonemi concreti e discreti, particelle elementari di un’armonia in fragile divenire.

In questo assetto cameristico, dunque, i doppi archi e fiati di Lemur non sono un tipico controbilanciamento ai voluttuosi cromatismi del piano, bensì con esso le parti equivalenti di un agitato colloquio pre-melodico: una laboriosa accordatura tra elementi non comunicanti, spesso in aperto e rumoroso dissidio, ma che tuttavia, col passare dei minuti, riescono a individuare il loro punto d’incontro in bordoni acustici grezzi e frastagliati.
Laddove i flauti e il corno ricalcano i richiami faunistici dell’immaginario sciarriniano – quando non si rifugiano nell’afonia dei colpi di chiave –, violoncello e contrabbasso si destreggiano tra perforanti armonici naturali e stoppati che disvelano lo spazio negativo della tonalità. Ma è proprio il pianoforte a dar prova del più sorprendente mimetismo, rinunciando alla sua identità storica per addentrarsi nel peculiare microcosmo sonoro dell’ensemble: agendo direttamente sulla cordiera, Friedl trasforma la cassa di risonanza in un paesaggio della mente che può transitare da uno stato di vibrante attesa, percorso soltanto da un timido zampettare, a squassanti turbolenze endogene che man mano pervadono le presenze circostanti.

Per mezzo di una “metodica eterodossia” improvvisativa, l’inedito quintetto raggiunge così la propria dimensione espressiva ulteriore: una matassa inestricabile di eventi solo in apparenza privi di correlazione e afferenti, invece, al medesimo affascinante ecosistema uditivo, entro il quale si annidano legami più profondi e inconoscibili di quelli codificati sul pentagramma.


Line-up: Bjørnar Habbestad, flutes; Hild Sofie Tafjord, horn; Lene Grenager, cello; Michael Duch, contrabass; Reinhold Friedl, piano


From the mid-twentieth century onwards the avant-garde has been keen to remind us that the piano was and remains a percussive instrument: it goes without saying that its tonal potential, deployed through preparations and extended techniques of all sorts, will prove to be more numerous and diversified than for other classical instruments, all of them already “revisited” by the contemporary repertoire. With this awareness, pianist and composer Reinhold Friedl has stoically worked to bridge the gap between the rigor of the academic world and the iconoclastic fury of the most extreme musical underground, turning his ensemble zeitkratzer into one of the most daring and innovative of our time.
The encounter with Norwegian quartet Lemur is based on the recognition of sonic creation as a practice that pre-exists the concept of ‘music’: on Alloy an atavistic language unfolds regulated solely by the serendipitous discovery of concrete and discrete phonemes, the elementary particles of a harmony in frail becoming.

In this chamber music setup, therefore, Lemur’s double strings and wind instruments are not a typical counterbalance to the voluptuous chromatisms of the piano, but with it the equivalent parts of an agitated pre-melodic colloquium: a laborious tuning between non-communicating elements, often in open and boisterous disagreement, but which nevertheless, as the minutes go by, manage to find their meeting point in raw and jagged acoustic drones.
Where the horn and flutes reflect the faunal calls of Sciarrino’s imagery – when they don’t take refuge in the aphony of key strokes –, the cello and double bass juggle between piercing natural harmonics and muted strings that reveal the negative space of tonality. But it’s precisely the piano that demonstrates the most surprising mimicry, renouncing its historical identity to delve into the ensemble’s peculiar sonic microcosm: acting directly on its inside, Friedl transforms the sounding board into a landscape of the mind that can transit from a state of vibrant expectation, traversed only by a timid scuffling, to shaking endogenous turmoils that gradually pervade the surrounding presences.

By means of a “methodical heterodoxy” of improvisation, the original quintet thus reaches its own ulterior expressive dimension: an inextricable tangle of events only apparently devoid of correlation and afferent, instead, to the same fascinating auditory ecosystem, within which are concealed ties more deep and unknowable than those encoded on the pentagram.


Martin Taxt
First Room

Sofa Music, 2020 | chamber-drone


Chi sceglie le vie della musica sperimentale – quasi sempre opposte a quelle del successo – lo fa per non accettare alcun tipo di compromesso, sia da solista che nelle formazioni in gruppo: ne è un’evidente prova, tra molte altre, la strenua coerenza della visione artistica di Martin Taxt, dispiegatasi in numerosi progetti d’area norvegese e in particolare con i Microtub – primo trio di tube microtonali al mondo.
Co-curatore di Sofa Music dal 2010 a fianco di Kim Myhr, Ingar Zach e Ivar Grydeland, il suonatore di tuba originario di Trondheim ha improntato gran parte della sua ricerca sonora ed espressiva alla relazione fra toni continui, contribuendo di fatto a quella sorta di “ritorno all’ordine” (dall’elettronico all’acustico) che ha gradualmente consolidato le varie declinazioni di un’autentica drone music da camera.

Il primo album solista di Taxt è anche il programmatico avvio di una serie di opere concepite come “stanze”, e dunque intese come un nesso diretto tra musica e architettura in quanto arti complementari: è d’altronde innegabile che lo spazio dia forma al suono e che, a sua volta, il suono abbia il potere di evocare uno spazio mentale con vividezza pari o persino superiore alla parola. Ma questa First Room non inquadra una singola prospettiva sulla realtà, bensì sovrappone due piani temporali distinti: una performance dal vivo (con le proiezione del videoartista Kjell Bjørgeengen, come già per Sissel di Keith Rowe e John Tilbury) e una registrazione del giorno precedente, entrambe in duo con Inga Margrete Aas (Vilde&Inga) – quest’ultima alternamente alla viola da gamba e al contrabbasso. 

Utilizzando i pattern geometrici dati dalle pieghe di un tatami come traccia per la propria partitura, Taxt dirige con pazienza e rigore il sottile dialogo tra passato e presente dell’esecuzione: una relazione resa ancor più ermetica e interstiziale dall’esperienza del solo ascolto, tanto che l’isolamento delle cuffie si rende quasi obbligatorio al fine di discernere le voci dei singoli strumenti; ciò vale sia per le sezioni di maggior nitidezza tonale che per la lunga parte centrale, tesa a un riduzionismo consciamente anti-espressivo tale da accentuare il contrasto con il solenne rientro in scena della tuba.
È nel corso degli ultimi quindici minuti, infatti, che l’ibrida e imperscrutabile armonia tra gli strumenti classici, il sommesso ronzio elettronico delle sine waves e un primitivo acciottolio come di sassolini, tratteggia un incolore scenario metafisico che tuttavia sembra occasionalmente affacciarsi sull’abisso doom dei Sunn O))) di Monoliths and Dimensions – un’allucinata trascendenza cui non di rado conducono tanto l’esecuzione quanto la fruizione di brani che sfruttano la tecnica della respirazione circolare.

Va da sé, dunque, che quella concepita da Martin Taxt sia l’esatto opposto di una wunderkammer, ovvero la sede di un ascolto profondo avulso dalla rappresentazione, dove possono liberamente tornare a instaurarsi relazioni tra forme e gesti sonori essenziali. È l’anticamera dell’espressione musicale, l’alfabeto minimo a partire dal quale rifondare una contemporaneità già oltre il punto di collasso.


Those who choose the paths of experimental music – almost always opposite to those of success – do so in order not to accept any type of compromise, both as soloists and in group formations: proof of this, among many others, is the strenuous coherence of Martin Taxt’s artistic vision, deployed in numerous Norway-based projects and particularly with Microtub – the world’s first trio of microtonal tubas.
Co-curator of Sofa Music since 2010 alongside Kim Myhr, Ingar Zach and Ivar Grydeland, the tuba player from Trondheim has based much of his sonic and expressive research on the relationship between continuous tones, contributing in fact to that sort of “return to order” (from electronic to acoustic) which gradually consolidated into the various declinations of an authentic ‘chamber drone music’.

Taxt’s first solo album is also the programmatic launch of a series of works conceived as “rooms”, and therefore intended as a direct link between music and architecture as complementary arts: besides, it can’t be denied that space shapes sound and, in turn, sound has the power to evoke a mental space with a vividness equal to or even greater than words. But this First Room does not frame a single perspective on reality, and instead overlaps two different temporal planes: a live performance (with projections by video artist Kjell Bjørgeengen, as previously for Keith Rowe and John Tilbury’s Sissel) and a recorded track from the previous day, both in duo with Inga Margrete Aas (Vilde & Inga) – the latter alternatively on viola da gamba and double bass.

Using the geometric patterns given by the folds of a tatami as cue for his score, Taxt patiently and rigorously conducts the subtle dialogue between the past and present of the performance: a relationship rendered even more hermetic and interstitial by the experience of listening alone, so much so that the isolation of the headphones is almost mandatory in order to discern the single instrumental voices; this is true of both the sections with greater tonal sharpness and the long central part, aimed at a consciously anti-expressive reductionism such as to accentuate the contrast with the tuba’s solemn comeback.
It is over the course of the last fifteen minutes, in fact, that the hybrid and inscrutable harmony between the classical instruments, the subdued electronic hum of the sine waves and a primitive clatter as of pebbles, outlines a colorless metaphysical scenario which, however, occasionally seems to overlook the doom abyss of Sunn O)))’s Monoliths and Dimensions – a hallucinated transcendence to which the execution and the fruition of pieces exploiting circular breathing techniques often leads.

It goes without saying, therefore, that the one conceived by Martin Taxt is the exact opposite of a wunderkammer, namely the site of a deep listening detached from representation, where relationships between essential sonic shapes and gestures may once again be established. It’s the antechamber of musical expression, the minimum alphabet on which to re-found a contemporaneity already beyond the point of collapse.

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