Michael Pisaro-Liu – Revolution Shuffle

Erstwhile, 2021
sound art

(ENGLISH TEXT BELOW)

Due secoli fa ne avrebbero scritto un’opera lirica in tre atti, con numeri di grande enfasi canora e orchestrale; dalle avanguardie in poi, uno spettacolo multidisciplinare che fondesse epoche e culture distanti tra loro, mitologia greca e guerriglia metropolitana. Ma una volta spremuti anche i linguaggi della postmodernità, come si può rappresentare la rivoluzione? E ancora: è possibile assumere in merito una posizione di distacco critico, lasciando che sia soltanto il simulacro sonoro della realtà a farsi narratore (presuntivamente) imparziale?


Da compositore radicale e sobriamente visionario quale egli è, probabilmente Michael Pisaro-Liu non avrebbe potuto che adottare questo approccio, selezionando con cura le fonti più eterogenee e “organizzandole” in un patchwork ermetico e imperscrutabile – come la linea editoriale di Erstwhile sembra ormai esigere –, eppure traboccante di suggestioni e sottili rimandi alla storia contemporanea, osservata attraverso la lente opaca e deformante della sound art. Evidentemente non si fa riferimento a una rivoluzione in particolare, quanto piuttosto dell’idea assoluta di una sollevazione spontanea e necessaria, allo strisciante tumulto sotterraneo che permea l’incertezza dell’esistenza collettiva nel terzo millennio.

Ma almeno quanto il contenuto, se non di più, in Revolution Shuffle (2018-2021) a risultare cruciale è l’espediente formale adottato: 106 tracce di un minuto esatto ciascuna – riduzionismo che, una volta tanto, è anche forzosamente “orizzontale” –, non sequitur espressivi portatori di un caos endogeno oltre che globale, dal piglio tuttavia gioioso e non di rado ironico. Frammenti di field recordings da una quotidianità decontestualizzata si mescolano e si confondono, come a volerci costringere a un ascolto privo di condizionamenti o interpretazioni univoche.
In questo enigmatico flusso para-narrativo le varie manifestazioni verbali sono esclusivamente di seconda o addirittura terza mano: estratti di discorsi al popolo, dibattiti politici e grida di sommosse nelle strade si rivelano della medesima sostanza delle canzoni diffuse alla radio, tra suadenti melodie soul, adagi sinfonici, fanfare di big band jazzistiche, versi rap e riff elettrici accattivanti, tutti irrevocabilmente destinati a dissolversi nel giro di qualche istante.
Interventi discreti di manipolazione e missaggio accentuano l’effetto di uno spazio acustico dalla prospettiva variabile, mai abbandonato alla piattezza di un rozzo collagismo, e nel quale talvolta si infiltrano – come già in Étant donnés (Gravity Wave, 2018) – i sine tones caratteristici della tavolozza di Pisaro-Liu, controcanto sommesso e solo in apparenza neutrale alla caleidoscopica policromia del mondo.

La chiave poetica dell’opera, in definitiva, risiede nella sagace ambivalenza del termine “shuffle”: la riproduzione casuale dei segmenti non stravolgerebbe di certo la natura ibrida ed erratica dell’insieme, ma la danza suburbana originata nelle strade di Melbourne è una calzante sineddoche per quello che, anziché un concept statico, aprioristicamente definito – e dunque di per sé limitante –, si pone soprattutto come un libero saggio di “storia della storia” e “musica sulla musica”, intimamente congiunto e sospinto dallo spirito rivoluzionario che portò a cambiare anche le regole della creazione artistica, e senza il quale l’esistenza stessa di questo singolare objet sonore sarebbe forse inimmaginabile.

Two centuries ago one would have written an opera in three acts, with numbers of overly emphatic singing and orchestration; from the avant-gardes onwards, a multidisciplinary show merging distant eras and cultures, Greek mythology and metropolitan guerrilla. But once the languages of postmodernity have also been drained, how can revolution be represented? And besides, is it possible to take a position of critical detachment on this matter, leaving only the sonic simulacrum of reality to become a (supposedly) impartial narrator?

A radical and soberly visionary composer as he is, Michael Pisaro-Liu probably could only have adopted said approach, carefully selecting the most heterogeneous sources and “organizing” them in a hermetic and inscrutable patchwork – as the editorial line of Erstwhile now seems to demand –, yet overflowing with suggestions and subtle references to contemporary history, observed through the opaque and deforming lens of sound art. Evidently, no reference is made to a particular revolution, but rather to the absolute idea of a spontaneous and necessary uprising, to the creeping subterranean turmoil that permeates the uncertainty of collective existence in the third millennium.

But at least as crucial as the content, if not more, is the formal expedient adopted on Revolution Shuffle (2018-2021): 106 tracks of one minute each – a reductionism which, for once, is also necessarily “horizontal” –, expressive non sequiturs bearing endogenous as well as global chaos, with a nonetheless joyful and quite often ironic flair. Fragments of field recordings from a decontextualized everyday life are mixed and commingled, as if forcing us to listen without any constraint or univocal interpretation.
In this enigmatic para-narrative flow, the various verbal manifestations are exclusively second or even third hand: extracts from speeches to the crowds, political debates and shouts from street riots reveal themselves to be of the same substance as the songs broadcast on the radio, between persuasive soul melodies, symphonic adagios, fanfares of jazz big bands, rap verses and captivating electric riffs, all irrevocably destined to dissolve within a few moments.
Discreet manipulation and mixing interventions accentuate the effect of an acoustic space of variable perspective, never left to the flatness of a rough collagism, and in which sometimes infiltrate – as already on Étant donnés (Gravity Wave, 2018) – the signature sine tones from Pisaro-Liu’s palette, a subdued and only apparently neutral counterpoint to the world’s kaleidoscopic polychromy.

The poetic key of the work ultimately lies in the shrewd ambivalence of the term “shuffle”: the random playback of the segments certainly wouldn’t upset the hybrid and erratic nature of the whole, but the suburban dance that originated in the streets of Melbourne is a fitting synecdoche for what, instead of a static, aprioristically defined concept – and therefore limiting in itself –, stands above all as a free essay on “history of history” and “music about music”, intimately linked to and driven by the revolutionary spirit that led to a change of rules also in artistic creation, and without which the very existence of this singular objet sonore would perhaps be unimaginable.

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