Klara Lewis – Live In Montreal 2018

Editions Mego, 2022
ambient/drone

(ENGLISH TEXT BELOW)

Sarà a causa del prorompente attacco in medias res, ma è bastato un solo istante del solenne coro che inaugura questo live set di Klara Lewis per catapultarmi indietro nel tempo alla sera dell’11 novembre 2019, a Milano, quando la giovane sound artist svedese tenne un’analoga performance audiovisiva di folgorante suggestione, accompagnata dallo spettacolo di una ripresa aerea in graduale scioglimento, come uno sguardo vigile che, sprofondando lentamente nella dimensione onirica, trascinasse con sé le forme più tangibili e riconoscibili del mondo naturale per restituirle allo stupore primigenio della loro scoperta.


In essenza, quella di Lewis era e rimane una musica di spettri, il rigurgito inconsulto di un rimosso sensoriale che torna farsi presenza viva e pulsante: ed è particolarmente interessante, in tal senso, potersi immergere nuovamente nel capitolo creativo che precede la sintesi formale di Ingrid (2020), definitivo affondo nel pathos e nella “densità” cinematica che da sempre nutrono la sua ispirazione.
Pubblicato con doverosa e sentita dedica al patron di Editions Mego Peter “Pita” Rehberg, scomparso prematuramente nel 2021, Live In Montreal 2018 è ad oggi forse il parto più marcatamente espressionista di Lewis, certamente quello più soverchiante in termini puramente volumetrici: uno spazio dalla tensione drammatica costante, pervasa da loop di sorgenti vocali e sintetiche portate alla saturazione, fin sull’orlo estremo del caos, e i cui moti incoativi sospingono spontaneamente in avanti il processo di composizione in tempo reale.

Alla lunga sequenza introduttiva, palpitante di ritmiche smorzate e concrezioni rumoriste dall’effetto ansiogeno, fa seguito una depressione in tonalità tendenti al blues e al soul, un detour dal toccante lirismo che opacizza e infine disperde le parole intelligibili del canto, lasciandone echeggiare indefinitamente l’ultimo scampolo di pura enfasi emozionale. Nei dieci minuti finali lo scenario si ammanta di una nebbia impenetrabile, ogni elemento è come celato da un chiaroscuro che man mano retrocede sotto la spinta di vaste ondate di luce, manifestazioni salvifiche e determinanti nel portare a compimento la visione di Klara Lewis, come sempre assai più lucida di quanto la sua ineffabile resa sonora lasci intendere.

In un ambito nel quale tutto sembrava essere già stato espresso, performance come questa riescono ancora a spaesare la nostra percezione e a portarci apparentemente lontanissimo – in realtà soltanto a un breve passo dall’abituale e confortevole stato di coscienza. A suo modo, un esito artistico magistrale.


It may be because of the unbridled entry in medias res, but it took only a second of the solemn chorus that inaugurates this live set by Klara Lewis to catapult me back in time to the evening of November 11, 2019, in Milan, when the young Swedish sound artist held a similar audiovisual performance of dazzling suggestiveness, accompanied by the spectacle of an aerial shot in gradual dissolution, like a watchful gaze that, while slowly drifting into the oneiric dimension, drags with it the most tangible and recognizable forms of the natural world in order to restore the primeval amazement of their discovery.

In essence, Lewis’s was and remains a music of specters, the rash regurgitation of a repressed sensorial memory coming back as a living and pulsating presence: and it is particularly interesting, in this sense, to be able to immerse oneself again in the creative chapter that precedes the formal synthesis of Ingrid (2020), the definitive delve into the pathos and cinematic “density” that have always nourished her inspiration.
Published in due and heartfelt dedication to Editions Mego’s mastermind Peter “Pita” Rehberg, who prematurely passed away in 2021, as of now Live In Montreal 2018 is perhaps Lewis’ most markedly expressionist outing, certainly the most overwhelming in purely volumetric terms: a space of constant dramatic tension, pervaded by loops of vocal and synthetic sources brought to saturation, at the extreme border with chaos, and whose incoative motions spontaneously push forward the real-time composition process.

The long introductory sequence, throbbing with anxiety-inducing muffled rhythms and noise concretions, is followed by a depression whose tonalities tend towards blues and soul, a detour of touching lyricism that opacifies and finally disperses all the intelligible words sung, leaving the last remnant of pure emotional emphasis to echo indefinitely. In the final ten minutes the scenario is cloaked in an impenetrable fog, each element as if being hidden by a chiaroscuro that gradually recedes under the thrust of large waves of light, redeeming and decisive manifestations that bring to fulfillment Klara Lewis’s vision, as always much more lucid than its ineffable sonic rendition suggests.

In a realm where all seemed to have already been expressed, performances like this one still manage to disorient our perception and seemingly take us far away – in reality only a short step from the habitual and comfortable state of consciousness. In its own way, a masterful artistic achievement.

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