Akousis, 2021
free impro

(ENGLISH TEXT BELOW)
Con quale spirito si può tentare di instaurare un legame creativo tra generazioni e ascendenze stilistiche distanti nel tempo? Da dove si comincia a immaginare e intravedere un comune orizzonte espressivo? Potrebbe sembrare relativamente facile accostarsi e allinearsi a una filosofia improvvisativa (in verità assai prossima a un credo religioso) che non contempla prove preliminari e che si affida unicamente alla sensibilità dei performer convocati di volta in volta: alla prova dei fatti, tuttavia, risulta quasi impossibile ignorare la memoria storica delle pionieristiche esperienze ed estetiche sviluppatesi attorno alla sigla AMM, di cui il pianista John Tilbury (*1936) si è mantenuto nei decenni uno dei baluardi più costanti e rappresentativi.
Adottando un approccio altrettanto distintivo e integralista, il sassofonista francese Bertrand Gauguet (*1970) è riuscito a stabilire un contatto originale con il decano inglese, eludendo certi automatismi nelle dinamiche di dialogo in favore di un netto eppur garbato contrasto formale, foriero di oblique soluzioni para-musicali.
Adoro il suono della musica di Bertrand: esteticamente mi tiene sulle spine, ricordando il devastante giudizio di David Tudor, secondo cui “il problema del pianoforte sta nell’essere soltanto un brutto suono dopo l’altro”.
Lo straniante commento di Tilbury, al solito, non fornisce risposte ma soltanto un’enigmatica suggestione, introduzione ideale a un fare (e farsi) suono scevro da dichiarati intenti espressivi. La formula dell’inedito duo si mantiene pressoché invariata nei concerti tenuti in Francia nell’aprile del 2016 e nel novembre del 2019, rispettivamente presso l’Église Saint-Maximin a Metz e l’Espal Scène nationale a Le Mans: attraverso una panoplia di tecniche estese che si spingono nei recessi profondi e oltre le vette tonali dei registri canonici, Gauguet offre al pianista un contrappunto di pura indagine timbrica; un costante misurarsi con le risonanze delle pareti circostanti che, specialmente nel primo disco, ricorda le analoghe sperimentazioni di Jeremiah Cymerman e Christian Kobi, a ben vedere non atti solistici bensì duetti in stretto rapporto con lo spazio.
L’occasionale assonanza con i richiami per uccelli – elemento caro a Tilbury che si colloca al confine tra naturalismo e artificiosità – è l’unico accenno di verosimiglianza cui appigliarsi in uno scenario pervaso da una pensosa e solenne astrazione, inevitabile eco delle sessioni del pianista con Keith Rowe, episodi cruciali nel delineamento dell’odierna identità del redivivo trio AMM. Ma la permanenza di Gauguet entro la sfera dell’effetto subarmonico e del tratto sonoro residuale, talvolta prossimo all’afonia, sembra ispirare nel pianista una maggior sicurezza nell’invitare ed escogitare sempre nuove fuoriuscite dagli eventuali cul-de-sac performativi.
Nonostante il disorientamento derivante dall’illusione di un tempo sospeso, infatti, Tilbury ricorre meno di frequente ai motivi di marca feldmaniana, cercando i fonemi e le interiezioni del suo linguaggio indeterminato tra le corde della cassa armonica, o nella sorda matericità dei tasti d’avorio non percossi. Relativamente poco incline al flirt con il silenzio, l’interplay tende anzi a produrre addensamenti di aspre dissonanze e persino a sfociare in collisioni perturbanti, grida interiori che non sanno trovare vie di sfogo adeguate ma soltanto provvisorie.
Non vi è, comunque, alcun senso di soggezione in questi incontri intergenerazionali alla periferia della significazione: una volta sgomberato il campo dalle trappole dell’intenzione e del concettualismo, anche qui, come in altre istanze simili, non rimane che il libero flusso dell’inesprimibile e dell’indecifrabile, la vivida essenza di ciò che si cela oltre la musica.

With what spirit can one try to establish a creative bond between distant generations and stylistic ancestries? Where does one begin to imagine and glimpse a common expressive horizon? It might seem relatively easy to approach and align with an improvisational philosophy (actually very close to a religious belief) that doesn’t contemplate preliminary rehearsals and which relies solely on the sensitivity of the performers involved on each occasion: evidence shows, however, that it’s nearly impossible to ignore the historical memory of the pioneering experiences and aesthetics that developed around the acronym AMM, of which pianist John Tilbury (*1936) has remained one of the most constant and representative bastions over the decades.
Adopting an equally distinctive and integralist approach, French saxophonist Bertrand Gauguet (*1970) managed to establish an original contact with the English dean, evading certain automatisms in dialogue dynamics in favor of a stark yet gentle formal contrast, a harbinger of oblique para-musical solutions.
I love the sound of Bertrand’s music: aesthetically keeps me on my toes, recalling David Tudor’s devastating judgement, “The trouble with the piano is, it’s just one ugly sound after another”.
As usual, Tilbury’s disorienting comment does not provide answers but only an enigmatic suggestion, an ideal introduction to a sound-making (and making-oneself-sound) devoid of declared expressive intentions. The new duo’s formula stays almost unchanged in the concerts held in France in April 2016 and November 2019, respectively at the Église Saint-Maximin in Metz and the Espal Scène nationale in Le Mans: through a panoply of extended techniques, delving into the deep recesses and beyond the tonal peaks of the canonical registers, Gauguet offers the pianist a counterpoint of pure timbral investigation; a constant confrontation with the resonances of the surrounding walls which, especially on the first disc, recalls similar experiments by Jeremiah Cymerman and Christian Kobi, in hindsight not solo acts but duets in close relationship with the space.
The occasional assonance with bird calls – an element dear to Tilbury, on the border between naturalism and artificiality – is the only hint of verisimilitude to cling to in a scenario pervaded by a pensive and solemn abstraction, an inevitable echo of the pianist’s sessions with Keith Rowe, crucial episodes in the shaping of the revived AMM trio’s current identity. But Gauguet’s permanence within the sphere of subharmonic effects and residual sonic traits, sometimes verging on aphony, seems to inspire the pianist with more confidence in inviting and devising ever-new escapes from any performative cul-de-sacs.
Despite the bewilderment deriving from the illusion of suspended time, in fact, Tilbury less frequently resorts to Feldman-esque motifs, searching for the phonemes and interjections of his indeterminate language between the strings of the sounding board, or in the dumb materiality of the unstruck ivory keys. Relatively disinclined to flirting with silence, the interplay tends indeed to produce accumulations of harsh dissonances and even leads to disturbing collisions, inner cries that cannot find adequate escape valves but only provisional ones.
There is, however, no sense of intimidation in these intergenerational encounters on the periphery of signification: once the field has been cleared of all traps of intention and conceptualism, here too, as in other instances of this sort, there remains only the free flow of the inexpressible and the indecipherable, the vivid essence of what lies beyond music.