Weekly Recs | 2020/30

Philip Corner – Chord / Gong! (Unseen Worlds, 2020)

d’incise – Interpretation of Delphine Reist “Chorale” (Falt, 2020)

Gerard Lebik / noid – Psephite (Inexhaustible Editions, 2020)



Philip Corner
Chord / Gong!

Unseen Worlds, 2020 | minimalism, drone


È grazie all’amorevole operato di etichette come Unseen Worlds se stiamo vivendo un’epoca d’oro per le ristampe e il recupero di incisioni d’archivio dimenticate, testimonianze di avanguardie musicali còlte nelle loro prime (e solo oggi storicizzate) manifestazioni. Apparteneva al catalogo italiano di breve corso Exit & Exempla, a cura di Maurizio Nannucci, l’unica edizione in audiocassetta di questa doppia performance pianistica di Philip Corner e Carles Santos, registrata a New York nel maggio 1978 e pubblicata nove anni più tardi. Oggi questa rarità rivede la luce in un’edizione di 300 Lp con un nuovo mastering digitale di Stephan Mathieu.
I due brani estesi di Philip Corner, nelle presenti versioni per pianoforte a quattro mani, ne esemplificano la sensibilità melodica e la fascinazione per l’accumulo di risonanze acustiche, due aspetti che lo accomunano alle coeve sperimentazioni di un altro maestro del minimalismo americano come Charlemagne Palestine, cui peraltro appartiene il Bösendorfer utilizzato per queste registrazioni. 

Nell’autoesplicativa “Chord: B Major / B♭ Minor 9” ci viene offerta la prova di come sia possibile suonare a lungo lo stesso accordo facendo sì che non risulti mai uguale a se stesso; al variare dei ritmi e degli arpeggi eseguiti sulle diverse ottave si generano infiniti intrecci armonici in un flusso ipnotico e sublimante di bassi e acuti complementari. Ma questo brano è anche, in un certo senso, una lezione di base sul potere emozionale delle tonalità maggiori e minori: alla luminosità e all’occasionale concitazione del primo segmento – a tratti incredibilmente memore della ‘continuous music’ di Lubomyr Melnyk, proprio allora agli esordi – succede infatti, verso il diciassettesimo minuto, il drammatico passaggio al semitono inferiore e in accordo minore; ed è come un cambio di stagione tanto improvviso quanto spontaneo, l’inevitabile risvolto di una maestosa fioritura che scivola nella caducità dei mesi freddi, tingendo di malinconia ogni cosa. Un intero universo sinestetico che prende miracolosamente forma da un brano solo in apparenza “concettuale”, ambivalente e rivelatorio come sapevano concepirne i pionieri della vecchia scuola minimalista.

La trascrizione di “Gong!” ricrea l’ovvio legame percettivo con lo strumento a percussione orientale esercitando la pressione dei tasti unicamente nel registro grave: Santos e Corner dissimulano i loro gesti energici dando meno risalto possibile all’azione dei martelletti sulle corde, così che dalla cassa armonica si sprigioni una nube di suoni residuali e indistinti, profonde vibrazioni che evocano solo l’ombra delle note eseguite in cluster dissonanti e decisamente sinistri. Man mano che il volume decresce sino al completo silenzio l’emissione dei suoni si fa vieppiù misteriosa e misterica, come se scomparisse anche l’imponente fisicità del pianoforte a coda e il gong immaginario riecheggiasse dal buio di una notte atavica.


It is thanks to the loving work of labels like Unseen Worlds if we are experiencing a golden age for reissues and the recovery of forgotten archival recordings, testimonies of musical avant-gardes captured in their first (and only now historicized) manifestations. It belonged to the Italian short-run catalog Exit & Exempla, curated by Maurizio Nannucci, the only audio-cassette edition of this double piano performance by Philip Corner and Carles Santos, recorded in New York in May 1978 and published nine years later. Today this rarity sees the light once again in an edition of 300 LPs with a new digital mastering by Stephan Mathieu.
Philip Corner’s two extended pieces, in the present piano four-hands versions, exemplify his melodic sensitivity and his fascination for the accumulation of acoustic resonances, two aspects that unite him to the contemporary experiments of another master of American minimalism such as Charlemagne Palestine, to whom in fact belongs the Bösendorfer used for these recordings.

The self-explanatory “Chord: B Major / B♭ Minor 9” proves how it’s possible to play the same chord for a long time, never making it look quite the same; as the rhythms and arpeggios performed on the different octaves vary, infinite harmonic weaves are generated in a hypnotic and sublimating flow of complementary bass and treble. But this piece is also, in a way, a basic lesson on the emotional power of major and minor keys: the brightness and occasional excitement of the first segment – at times unbelievably reminiscent of Lubomyr Melnyk’s ‘continuous music’, just then at his own debut – is followed, around minute 17, by the dramatic transition to the lower semitone in a minor key; and it sounds like a change of season, as sudden as it is spontaneous, the inevitable reverse of a majestic flowering that slips into the transience of the cold months, tinging everything with melancholy. A whole synaesthetic universe that miraculously takes shape from a piece only apparently “conceptual”, ambivalent and revelatory as the pioneers of the old minimalist school could conceive them.

The transcription of “Gong!” recreates the obvious perceptual connection with the Oriental percussion instrument by pressing only the keys in the lower register: Santos and Corner conceal their energetic gestures giving as little emphasis as possible to the action of the hammers on the strings, so that a cloud of residual and indistinct sounds arises, deep vibrations evoking just the shadow of the notes struck through dissonant and decidedly sinister clusters. As the volume decreases towards complete silence, the emission of sounds becomes increasingly mysterious and mysteric, as if even the imposing physicality of the grand piano disappeared and the imaginary gong echoed from the darkness of an ancestral night.


d’incise
Interpretation of Delphine Reist “Chorale”

Falt, 2020 | sound art, noise


I futuristi erano inebriati dal rombo assordante della civiltà delle macchine, preludio alla sinfonia del progresso tecnologico che all’alba del Novecento si annunciava ormai come inarrestabile. Non sarebbero stati altrettanto soddisfatti della successiva tendenza ad attutire e infine silenziare gli “intonarumori” della vita quotidiana, investiti della stessa qualità poetica che in epoca pre-moderna era attribuita al canto degli uccelli. Avrebbe invece meritato il loro encomio l’artista svizzera Delphine Reist, artefice di installazioni semoventi che conferiscono pari dignità all’oggetto fisico quanto alla sua capacità di creare suoni, anche in rapporto a eventuali “protesi” a essi applicate.

Nasceva nell’ottobre 2018, nell’ambito di una mostra personale presso la galleria Die Diele di Zurigo, questa improbabile performance realizzata da Laurent “d’incise” Peter: l’opera “Chorale” del 2014 diveniva l’ipotetico “ensemble da camera” in un concerto per sei aspirapolvere (Proline1800, Quigg2000, Progress1600, Home2000, Panasonic1500 ed Electrolux Clario) e un regolatore di voltaggio elettrico. Quest’ultimo, solitamente utilizzato nei sistemi di illuminazione, si trasforma in una curiosa mixing board attraverso cui variare la potenza fornita ai motori delle macchine, e dunque il loro distintivo rumore sordo.

In tal modo, come un direttore classico, d’incise genera ronzii continui, motivi scricchiolanti e altri discreti contrappunti al silenzio, immaginando la vita segreta degli aspirapolveri al di fuori del loro banale utilizzo domestico. Non è poi casuale la suddivisione nei due movimenti riversati sui lati di un’audiocassetta: se la prima mezz’ora si pone come una sorta di laboratorio, una timida e pensosa esplorazione delle proprietà para-espressive degli aspirapolvere, i dieci minuti finali rappresentano il climax ascendente della “polifonia” elettrica, la graduale saturazione di un drone-noise che abbiamo consciamente ignorato per tutta una vita, e che qui si rende invece presenza concreta e drammatica.
L’occhio del ciclone torna infine a placarsi mentre i modelli circostanti si scambiano l’ultimo cenno d’intesa, un rantolo meccanico che li riporta all’inazione cui sono condannati per gran parte dei loro giorni. Riconoscerete anche voi il grido di dignità, finanche l’animo malinconico, di questi umili interpreti?


The Futurists were intoxicated by the deafening roar of the age of machines, a prelude to the symphony of technological progress which by the dawn of the twentieth century announced itself as unstoppable. They wouldn’t have been equally satisfied, though, with the subsequent tendency to muffle and finally silence the “intonarumori” of everyday life, invested with the same poetic quality that in pre-modern times had been attributed to birdsongs. Instead, one that would have certainly deserved their praise is Swiss artist Delphine Reist, creator of self-propelled installations that give equal dignity to the physical object as to its ability to create sounds, also in relation to any possible “prostheses” applied to them.

Thus came to be this improbable performance conceived by Laurent “d’incise” Peter in October 2018, as part of a personal exhibition at Die Diele gallery in Zurich: Reist’s work “Chorale” from 2014 becomes here the hypothetical “chamber ensemble” in a concert for six vacuum cleaners (Proline1800, Quigg2000, Progress1600, Home2000, Panasonic1500 and Electrolux Clario) and an electric voltage dimmer. The latter, usually used in lighting systems, turns into a curious mixing board through which to regulate the power supplied to the engines of the machines, and therefore also their distinctive dull noise.

In this way, like a classical conductor, d’incise generates continuous hums, creaking motifs and other discreet counterpoints to silence, imagining the secret life of vacuum cleaners outside of their ordinary domestic use. The division into the two movements that occupy the sides of a cassette tape is not accidental, either: if the first half hour is a kind of laboratory, a timid and pensive exploration of the para-expressive properties of the vacuum cleaners, the final ten minutes represent the ascending climax of the electric “polyphony”, the gradual saturation of a drone-noise that we’ve been consciously ignoring our whole life, and which here instead becomes a concrete and dramatic presence.
The eye of the hurricane finally returns to subside as the surrounding models exchange the last sign of understanding, a mechanical rattle that takes them back to the inaction to which they are condemned for most of their days. Will you, too, recognize the cry of dignity, even the melancholy spirit, of these humble interpreters?


Gerard Lebik / noid – Psephite

Inexhaustible Editions, 2020 | eai


Che cos’è una nota, se non un suono deprivato della sua libertà fenomenica? Tale assunto sembra aver guidato l’intera storia della “musica spontanea”, originata dalle pratiche d’improvvisazione radicale introdotte negli anni sessanta: un approccio anti-accademico che, complice l’entusiasmo dei suoi pionieri, si è dapprima manifestato in forme fragorose per prendere solo qualche decennio dopo le strade della riduzione, ossia di una rinnovata attenzione alla dignità “musicale” intrinseca alla più elementare materia sonora, rivelata nelle sue qualità meno evidenti.
Rientriamo dunque nel dominio dell’espressione obliqua e della composizione istantanea, realizzata con strumenti noti suonati come fossero attrezzi da lavoro manuale, e viceversa. Gerard Lebik e Arnold Haberl (alias noid) mettono sullo stesso piano gli oggetti sonori dell’uno e il violoncello dell’altro, procedendo con Psephite a coniare da zero un linguaggio (non)musicale comune.

Sono relativamente poche, difatti, le note enunciate in senso classico: quand’anche fra le tecniche estese di noid si fanno strada tonalità riconoscibili, la loro resa è incerta, cedevole, dissonante (“Basalt Pebbles”) oppure soltanto grottescamente decontestualizzata, come un corpo sonoro estraneo (“Basalt Bloc”). Una deliberata rinuncia espressiva che tende ad assecondare gli input elettroacustici di Lebik, che con le sue elaborate microfonazioni sembra dare voce alle ultime energie racchiuse nei rifiuti di una discarica industriale: pulsazioni, clic e feedback intermittenti, tasti meccanici senza risposta, frequenze ultrasoniche che recidono orizzontalmente i canali stereo. C’è infine un terzo elemento nascosto: lo spazio circostante, il rimbombo quasi impercettibile delle pareti che rifrangono l’imperscrutabile dialogo dei performer, amplificando anche i loro silenzi entro una cornice invisibile, eppure ben discernibile dal vuoto che segue la riproduzione dell’album.

Senza porre domande né offrire risposte il duo si esibisce con la massima serietà in un concerto post-apocalittico per un pubblico ignoto, più probabilmente formato da oggetti inerti piuttosto che da esseri senzienti: ma il senso di assoluta estraneità alla loro fonetica ibrida non fa che accrescere la volontà di osservarne la pratica relazionale e carpire la sua sfuggente logica.Sette anni sono intercorsi tra la registrazione e la pubblicazione di queste sessioni in studio a Wrocław – a cura della sempre più pregevole Inexhaustible Editions di László Juhász – ma l’aura discreta dei gesti compiuti nell’irripetibile ‘qui e ora’ che documentano si estende e si rinnova nel nostro presente in tutta la sua ermetica alterità.


What is a note, if not a sound deprived of its phenomenal freedom? This assumption seems to have guided the entire history of “spontaneous music”, originated from the radical improvisation practices introduced in the sixties: an anti-academic approach which, thanks to the enthusiasm of its pioneers, first manifested itself in thunderous forms to then follow, a few decades later, the path of reduction, meaning a renewed attentiveness to the “musical” dignity intrinsic to sound matter in its most elementary forms, revealed in its less evident qualities.
So we re-enter the domain of oblique expression and instant composition, made with known instruments played as if they were manual work tools, and vice versa. Gerard Lebik and Arnold Haberl (aka noid) put one’s sound objects and the other’s cello on the same level, proceeding with Psephite to coin a common (non)musical language from scratch.

The notes executed in the classical sense are, in fact, relatively few: even if among noid’s extended techniques sometimes arise recognizable tonalities, their rendition is uncertain, flimsy, dissonant (“Basalt Pebbles”) or just grotesquely decontextualized, like a foreign sound body (“Basalt Bloc”). A deliberate expressive renouncement that tends to go along with the electroacoustic inputs arranged by Lebik, who with its elaborate microphone systems seemingly gives voice to the latest energies contained in the discarded items of an industrial landfill: pulsations, intermittent clicks and feedbacks, mechanical buttons without response, ultrasonic frequencies that cut the stereo channels horizontally. Lastly there’s a third hidden element: the surrounding space, the almost imperceptible rumble of the walls refracting the inscrutable dialogue of the performers, while also amplifying their silences within an invisible frame, yet clearly discernible from the emptiness that follows the album’s playback.

Without asking questions nor offering answers, with the utmost seriousness the duo takes part in a post-apocalyptic concert for an unknown audience, more likely formed by inert objects rather than sentient beings: but the sense of absolute extraneousness to their hybrid phonetics ends up increasing one’s will to observe their relational practice and understand its elusive logic.Seven years separate the recording and the release of these studio sessions in Wrocław – under the imprint of László Juhász’s increasingly noteworthy Inexhaustible Editions – but the discreet aura of the gestures performed in the unrepeatable ‘here and now’ that they document extends to our present and renews itself in all its hermetic otherness.

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