Old Heaven Books, 2020
experimental, noise, free impro

(ENGLISH TEXT BELOW)
In un’epoca in cui l’avanguardia e la sperimentazione sembrano insiemi di propaggini caotiche, miriadi di discepoli e pochi veri maestri, Keiji Haino si mantiene un fulcro costante e incrollabile, benché itinerante tra numerosi progetti e collaborazioni ad ampio raggio. Anche i sempre più frequenti interventi in situazioni collettive, d’altronde, finiscono sempre per diventare qualcosa di essenzialmente suo, affiancato puntualmente da comprimari di tutto rispetto – tra i più recenti e meritevoli bisogna menzionare i SUMAC di Aaron Turner, il collettivo free-jazz Konstrukt e la consolidata triade con Jim O’Rourke e Oren Ambarchi.
Mancava invece da qualche tempo l’Haino “solitario”, pienamente autoriferito come nei leggendari esordi degli anni 80: pur trattandosi di una registrazione live, The Meaning of Blackness è considerata dal suo autore come un’opera compiuta e a sé stante, ribadendo che anche una performance – più o meno improvvisata che sia – è a pieno titolo un atto volontario di composizione.
La release a cura di Old Heaven Books documenta i quasi novanta minuti dell’esibizione tenutasi nel 2016 a Shenzhen, in Cina, per la terza edizione del Tomorrow Festival. La versione completa del titolo, come sempre lunghissimo e dal tono oscuramente profetico, recita grossomodo: “Il significato dell’oscurità / Più decoroso del dovere / Essendo diventato più veloce di ogni cosa / Un sorriso che non è mai venuto alla luce”.
‘Decoroso’ (o ‘dignitoso’) è un termine che ritorna più volte nell’opera di Haino, ma che poco spesso si realizza in forme riconoscibili attraverso il predominante marasma noise delle sue incursioni: ebbene nella prima parte, dopo venti minuti abbondanti di assalto ritmico con violenti loop di drum machine, urla e schitarrate acide, lo sciamano giapponese dà inaspettatamente voce a un crescendo melodico alla Mono – in realtà il brano di repertorio “ここ” (Koko, ‘Qui’) -, tanto raro e spontaneo da arrivare a commuovere; persino nell’assommarsi di un ulteriore strato di assolo, distorto e sgraziato, emerge tutta la tormentata sensibilità di un artista che, qui con ogni evidenza, non si qualifica affatto come un mero terrorista sonoro, bensì come artefice e cantore di un tragico mondo interiore che brama di manifestarsi per suo tramite.
Un ultimo segmento di scordature al ribasso e risonanze mutanti (probabilmente manipolate con il fidato air synth, una sorta di theremin diabolico) conducono alla seconda e ancor più lunga parte della performance, dove si dipanano altre ruggenti manovre elettroniche intervallate da droni che invadono lo spazio acustico. Dopo la poesia, dunque, giunge lo stordimento, la trance indotta da tonalità sproporzionate, amplificate a livelli di decibel insostenibili, ulteriore risvolto di un’arte totale e intransigente. Al decimo minuto il rombo del motore si placa, Haino riprende il microfono e recita quietamente le sue indecifrabili sentenze, per poi di nuovo gettarsi anima e corpo in un’evocazione di spettri elettronici ululanti.
Attorno al minuto 20 torna in primo piano la chitarra elettrica con una riproposizione di “暗号” (“Ango”) della sua storica band Fushitsusha: progressioni di accordi solenni di matrice psichedelica, su un confine instabile tra tonalità maggiore e minore cui le grida roche e minacciose, tuttavia, conferiscono un’ancor più inequivocabile carica drammatica. Ogni discesa e risalita lungo il manico è come il parto di un animo deviato e succube dei propri demoni senza volto, esorcizzabili solamente nell’abbandono a un rituale fuori controllo con dilanianti picchi massimalisti. Sono loro, infine, le voci che si affollano nelle stratificazioni al microfono prima di un’ultima quiete apparente di corde risonanti in clean, ancora gravida di quelle presenze ingombranti e ineludibili.
Forse anche per la presenza di frammenti riconoscibili dal suo passato, The Meaning of Blackness fa pensare di avere finalmente tra le mani una necessaria e a lungo attesa summa espressiva di Haino-san, per quanto intrinsecamente provvisoria e passibile di infinite altre ipotetiche conformazioni. Per la varietà e il preciso controllo delle diverse fasi di sviluppo interno, invece, si tratta senza alcun dubbio di una tra le sue migliori pubblicazioni datate al nuovo millennio.
In an era in which the avant-garde and experimental scenes seem to be arrays of chaotic offshoots, myriads of disciples and few veritable teachers, Keiji Haino remains a constant and unshakable pivotal point, albeit itinerant between numerous and wide-ranging projects or collaborations. Even the increasingly frequent interventions in collective situations, on the other hand, always end up becoming something essentially his, infallibly supported by the most respectable peers – among the most recent and deserving ones we should mention Aaron Turner’s SUMAC, the free-jazz collective Konstruct and the consolidated triad with Jim O’Rourke and Oren Ambarchi.
For some time, however, what’s been missing is the “solitary” Haino, completely self-referenced as in the legendary beginnings back in the 80s: although it’s a live recording, The Meaning of Blackness is regarded by its author as a complete work in its own right, thus reiterating that a performance, too – be it more or less improvised -, is a full-fledged voluntary act of composition.
The release, care of Old Heaven Books, documents the almost ninety minutes of a show held in 2016 in Shenzhen, China, for the third edition of the Tomorrow Festival. The full version of the title, as always very long and with a darkly prophetic tone, was thus translated by Alan Cummings: “The Meaning of Blackness / More Decorous than Duty / Having become faster than everything / A smile that was never birthed into the light”.
The term ‘decorous’ returns several times in Haino’s work, but it seldom manifests itself in recognizable forms through the predominant noise chaos of his incursions: it so happens that in the first part, after twenty abundant minutes of rhythmic assault with violent drum machine loops, screams and acid guitar strummings, the Japanese shaman unexpectedly gives voice to a melodic crescendo à la Mono – actually the repertoire song “こ こ” (Koko, ‘Here’) -, so rare and spontaneous as to be touching; even at the addition of another layer of distorted and ungainly solos, manages to emerge all the tormented sensitivity of an artist who, here with all evidence, doesn’t qualify at all as a mere sound terrorist, but instead as the architect and cantor of a tragic inner world which longs to manifest itself through him.
A final segment of downward detunings and mutant resonances (probably manipulated with his trusty ‘air synth’, a sort of diabolical theremin) leads to the second and even longer part of the performance, where more roaring electronic maneuvers unravel, interspersed by drones that invade the acoustic space. After poetry, hence, comes the stun, the trance induced by disproportionate tones, amplified to unsustainable decibel levels, further implication of a total and uncompromising art. At the tenth minute the roar of the engine subsides, Haino picks up the microphone and quietly recites his indecipherable statements, and then again throws himself body and soul into an evocation of howling electronic spectra.
Around 20 minutes the electric guitar comes back in the foreground with a revival of “暗号” (“Ango”) by his historical band Fushitsusha: progressions of solemn chords of psychedelic matrix, on an unstable border between major and minor key to which, however, the raucous and threatening cries confer an even more unequivocal dramatic charge. Each descent and ascent along the fret is like the birth of a deviated soul succumbing to its faceless demons, exorcisable only in the abandonment to an uncontrolled ritual with destructive maximalist peaks. It’s their voices, at the end, crowding in the microphone layerings, before an ultimate apparent quiet of resonating strings in clean mode, still fraught with those cumbersome and unavoidable presences.
Perhaps also due to the presence of recognizable fragments from his past works, The Meaning of Blackness suggests that we may finally have in our hands a necessary and long-awaited expressive summa of Haino-san, however intrinsically provisional and liable to infinite other hypothetical conformations. For its variety and the exact control of its internal development’s different phases, then, it is undoubtedly one of his best publications dated in the new millennium.