Late Music, 2021
ambient/drone, modern classical

(ENGLISH TEXT BELOW)
La distrazione e, più in generale, le condizioni d’ascolto errate possono arrivare a celare completamente il quieto splendore della musica di Sarah Davachi: una musica inequivocabilmente vespertina, crepuscolare, cui soltanto l’ora tarda e il silenzio sembrano in grado di conferire un sottile manto di sacralità; un dominio espressivo che rifugge la dissonanza e accoglie, invece, il tono complementare, l’armonia aurea e sublime che già fu del tintinnabuli di Arvo Pärt e che nell’opera di Davachi appare sempre nella sua forma più sobria e impalpabile.
Io stesso, in questa sede, devo fare mea culpa e ammettere che ero sul punto di classificare Antiphonals come album minore, salvo poi accorgermi del profondo grado di dettaglio compositivo che si inscrive, ad esempio, in un brano come “Magdalena”: una sinfonietta interiore che addensa, nello spazio di un sussurro, le eco sbiadite di ciascuna sezione orchestrale, ricreandole ad arte con le voci sintetiche del Mellotron. O almeno questa è la percezione individuale, poiché in molti casi l’utilizzo dei vari strumenti a tastiera, uniti all’imperfetta grana della registrazione, mira consapevolmente a elidere le nette distinzioni timbriche tra i singoli elementi, sfumandole in un mormorio sommesso come di preghiera – di antifona, per l’appunto.
Un contrasto quantomai palese si compie tra l’aria medievale “Gradual of Image”, sovraincisione di motivi cantabili all’organo su arpeggi di chitarra acustica su una nota, e l’addensamento fuori fuoco di “Border of Mind”: il primo un momento d’atmosfera arcaicizzante e melanconica, il secondo esso stesso una manifestazione atmosferica, col graduale annullamento delle sue componenti tonali in una nube di immota trascendenza. Lo stesso dicasi dei tenui loop additivi di “Abeyant” e “Rushes Recede”, per certi versi accostabili alla poetica di Ian William Craig, i cui cori dell’io vanno moltiplicandosi sino alla sparizione dell’agente originario.
Laddove la summa espressiva di Cantus, Descant, con il suo afflato romantico, non rinunciava a sfociare in esplicite vette emozionali, Antiphonals si riallaccia agli album ancor precedenti per la sua sostanziale tendenza all’incolore: un discostamento dagli stilemi d’ascendenza classica che attraversa e contraddistingue l’intera produzione di Davachi e che, tuttavia, non si traduce mai in una neutralità di spirito, ma riconferma piuttosto la totale fiducia nel potere evocativo della materia sonora nella sua stratificata (benché talvolta inevidente) compiutezza.
Distraction and, more generally, wrong listening conditions can go as far as to completely conceal the quiet splendor of Sarah Davachi’s music: one of an unmistakably vespertine, crepuscular sort, to which only the late hour and silence seem capable of conferring a thin mantle of sacredness; an expressive domain that shuns dissonance and instead welcomes the complementary tone, the golden and sublime harmony that already belonged to Arvo Pärt’s tintinnabuli and which in Davachi’s work always appears in its most understated and impalpable form.
I myself, here, must do mea culpa and admit that I was about to classify Antiphonals as a minor record, until I realized the profound degree of compositional detail that is inscribed, for instance, in a piece like “Magdalena”: an inner sinfonietta that gathers, in the space of a whisper, the faded echoes of each orchestral section, artfully recreating them with the synthetic voices of the Mellotron. At least this is the individual impression, since in many cases the use of the various keyboard instruments, combined with the imperfect grain of the recording, consciously aims to eliminate any clear distinction between the timbres of the single elements, blurring them into a subdued murmur as that of a prayer – indeed, an antiphon.
A most flagrant contrast takes place between the medieval aria “Gradual of Image”, an overdubbing of organ cantabile motifs on single-note acoustic guitar arpeggios, and the out-of-focus thickening of “Border of Mind”: the former a moment of archaic and melancholic atmosphere, the latter itself an atmospheric manifestation, with the gradual erasing of its tonal components into a cloud of motionless transcendence. The same can be said of the tenuous additive loops on “Abeyant” and “Rushes Recede”, in some ways comparable to the poetics of Ian William Craig, whose choirs of self multiply until the primal agent disappears.
Where the expressive summa of Cantus, Descant, with its romantic afflatus, didn’t fail to reach explicit emotional peaks, Antiphonals traces back to even earlier albums in its substantial tendency towards colorlessness: a departure from stylistic features of classical lineage that traverses and distinguishes Davachi’s entire production which, however, in no case translates into a neutrality of spirit, but rather emphasises an utter confidence in the evocative power of sound matter in its stratified (although sometimes inevident) completeness.
