Intakt, 2021
free impro, avantgarde

(ENGLISH TEXT BELOW)
Diversi gradi di maestria possono sancire la buona riuscita di un’istanza performativa incerta come la sessione improvvisata: quello di un insieme “entropico” di solisti/soliloquenti la cui sola padronanza tecnica ed espressiva è sufficiente a lasciare sbalorditi; oppure quello di una formazione dall’interplay “empatico” ed estremamente calibrato, proiettata a un esito condiviso; e infine il caso più raro, nel quale si instaura una pratica relazionale a tal punto simbiotica da suggerire una “narrazione” sonora perfettamente compiuta, quasi indistinguibile da una composizione premeditata. Raro, si diceva, poiché è sempre e soltanto l’alchimia dell’istante a determinare il successo di un esperimento, quand’anche reiterato nel tempo, e non è dunque scontato che ciò avvenga nemmeno tra i più rodati improvvisatori.
Imbrigliare il presente è una sfida senza fine che Fred Frith e Ikue Mori hanno sempre accettato senza riserve. Il loro prolungato dialogo artistico ha radici pluridecennali, facendo capo alla fervida scena della downtown newyorkese orchestrata da John Zorn sin dagli anni ottanta: fu la nascita del trio Death Ambient con il bassista Kato Hideki, nel 1995, a cementare una visionaria ibridazione tra chitarre e live electronics della quale sinora non esisteva, tuttavia, una registrazione in duo.
È nel gennaio del 2015 che il cineasta tedesco Werner Penzel commissiona ai due avanguardisti la realizzazione di una colonna sonora e, sull’onda di tale ispirazione, vengono incisi in un solo giorno i quindici take di A Mountain Doesn’t Know It’s Tall, oggi edito da Intakt. Non condizionato da altre suggestioni che la pura immaginazione, si realizza in questa sede un connubio forse irripetibile, proteiforme a tal punto da produrre l’illusione di eludere i confini e l’intrinseca fissità del supporto audio.
Poche altre volte così dinamiche e tentacolari, le incursioni originanti dal laptop di Mori attraversano lo spazio sonoro come rivoli di mercurio, varcando portali che li moltiplicano e dislocano a intermittenza tra un canale e l’altro della stereofonia, in un delirio di glitch molecolari e drum machines portate al collasso. Da parte sua, Frith opera le sue collaudate tecniche estese e applicazioni di oggetti estranei al corpo della chitarra, protesi atte a deformarne ulteriormente la già obliqua e claudicante anti-espressività, fra stridori e nervosi sfregamenti di corde, inortodosse percussioni, feedback in loop e punteggiature di armonici naturali.
Con il breve trittico iniziale di schegge inafferrabili si spalanca d’un tratto una cornucopia di impulsi digitali metamorfici e clangori metallici, un lampo di alterità sonora che coglie l’attimo e lo sovverte, aprendo da subito una breccia nella percezione uditiva. Da questa primigenia e necessaria fenditura si entra nel vivo di un interscambio surreale ma stranamente possibile, nutrito dal caos eppure magistralmente controllato in ogni sua declinazione: dagli interludi più ponderati e atmosferici, variazioni di un soundscaping malefico ed elettromorfo (“Nothing to It”, “Nothing at All”, “Hishiryo”), agli allucinati slanci di radicale astrazione che costituiscono l’identità predominante dell’album; arrivando a un pre-finale che per contrasto sembra dispiegarsi come un Cinemascope avvolgente e immersivo (“Now Here”), risolvendosi da ultimo in una diversione che sembra solcare le sponde di una sinistra e imponderabile fantascienza metropolitana (“Samadhi”).
A Mountain Doesn’t Know It’s Tall è un gioco condotto con la massima serietà, come un proliferante tangram analogico/digitale fatto e disfatto senza soluzione di continuità. Con la loro entusiastica irrequietezza e insaziabilità, questi due leggendari performer sfuggono abilmente al passare degli anni, e anzi si mantengono stabilmente un passo avanti rispetto alle odierne evoluzioni della musica spontanea. Ad maiora semper.

Different degrees of mastery can sanction the success of an uncertain performative instance like the improvised session: that of an “entropic” set of soloists/soliloquents whose technical and expressive skill alone is enough to leave one astonished; or that of a line-up whose “empathic”, extremely calibrated interplay is projected towards a shared outcome; and finally the rarest case, in which a relational practice is established so symbiotic as to suggest a perfectly accomplished sonic “narration”, almost indistinguishable from a premeditated composition. Rare, as said above, since it’s always and only the alchemy of the moment that determines the success of an experiment, even when repeated over time, and so one shouldn’t expect it to necessarily happen even between the most experienced improvisers.
Harnessing the present is an endless challenge that Fred Frith and Ikue Mori have always taken on without reservation. Their prolonged artistic dialogue has decades-old roots, arising from the fervent downtown New York scene that John Zorn has been orchestrating since the eighties: it was the birth of the Death Ambient trio with bassist Kato Hideki, in 1995, that cemented a visionary hybridization between guitars and live electronics of which, until now, there existed no recording in duo.
It was in January 2015 that German filmmaker Werner Penzel commissioned the two avant-gardists to create a soundtrack and, in the wake of this inspiration, the fifteen takes of A Mountain Doesn’t Know It’s Tall – now published by Intakt – were recorded in a single day. Unconditioned by suggestions other than pure imagination, a perhaps unrepeatable blend is born here, protean to the point of producing the illusion of eluding the boundaries and the intrinsic fixity of the audio support.
Few other times so dynamic and tentacular, the incursions originating from Mori’s laptop traverse the sound space like rivulets of mercury, crossing portals that multiply and intermittently displace themselves from one stereo channel to the other, in a delirium of molecular glitches and drum machines brought to collapse. For his part, Frith operates his well-tested extended techniques and applications of foreign objects to the guitar body, prostheses designed to further deform the already oblique and faltering anti-expressiveness, between stridors and nervous rubbing of strings, unorthodox percussion, feedback loops and punctuations of natural harmonics.
With the brief initial triptych of elusive shards, a cornucopia of metamorphic digital impulses and metallic clangs suddenly opens up, a flash of sonic alterity that seizes the moment and subverts it, immediately opening a breach in one’s auditory perception. From this primeval and necessary fissure we get to the heart of a surreal but oddly possible interchange, feeding on chaos yet masterfully controlled in all its declinations: from the most pensive and atmospheric interludes, variations on a malignant and electromorphic soundscaping (“Nothing to It”, “Nothing at All”, “Hishiryo”), to the hallucinated outbursts of radical abstraction that constitute the album’s predominant identity; arriving then to a pre-finale which, by contrast, seems to unfold like an enveloping and immersive Cinemascope (“Now Here”), ultimately resulting in a diversion that seems to touch on the shores of a sinister and imponderable metropolitan sci-fi (“Samadhi”).
A Mountain Doesn’t Know It’s Tall is a game played with the utmost seriousness, like a proliferating analog/digital tangram seamlessly made and unmade. With their enthusiastic restlessness and insatiability, these two legendary performers deftly escape the passing of the years, and indeed remain firmly one step ahead of today’s evolutions in spontaneous music. Ad maiora semper.