Carrier, 2021
experimental, drone

(ENGLISH TEXT BELOW)
Non si può non comunicare: soltanto gli elementi naturali detengono questo esclusivo potere, mentre l’azione o l’inazione dell’essere senziente derivano sempre da una scelta volontaria, e con essa inevitabilmente producono senso. Si tratta di un assunto tutt’altro che scontato, specie a fronte di espressioni artistiche talmente lineari e ridotte all’osso da non necessitare, in apparenza, di alcuna decodifica ulteriore: ma occorre rimarcare che, anche nel più totale distacco e nell’illusione di un approccio radicalmente oggettivante, in qualche modo riuscirà a farsi strada un residuo di significazione, un seppur pallido rimando ai soggetti e al contesto che hanno prodotto una determinata istanza creativa.
arb ci racconta di una comune solitudine, del vivere e performare in un presente immoto, allineando il respiro al flemmatico incedere del tempo – individualmente e collettivamente inteso. Nell’isolamento imposto dal lockdown globale, i fiatisti Zachary Good e Ben Roidl-Ward erano destinati a condividere lo spazio limitato di un appartamento presso Edgewater, Chicago: ed è da questa surreale forma di alienazione domestica che scaturisce una pratica relazionale volta a una completa simbiosi del gesto sonoro; un’armonia non più scindibile nelle sue componenti discrete, attraversata soltanto dalle finissime striature e inflessioni di effetti psicoacustici spontanei.
Dapprima, dunque, clarinetto e fagotto affiorano da un medesimo solco temporale, con lunghi toni sostenuti – circa venti secondi – e brevi pause per respirare: come una sorta di antifona sommessa e introversa, “Fairchild” evoca gli accordi di un organo a canne sottratto al riverbero del suo habitat primario, eppure attraversato da vibrazioni altrettanto dense e quasi tangibili. Con il secondo étude le due voci si disallineano, accentuando ancor più i battimenti risultanti dalla concomitanza di frequenze immediatamente adiacenti, secondo l’esempio delle eminenze Alvin Lucier e Phill Niblock. Arriviamo poi all’ardua prova della respirazione circolare: “Guby” è un dialogo serrato e affannoso, nuovamente giocato sulle oscillazioni microtonali ma con l’ulteriore insidia di uno ‘staccato’ rapidissimo, una nervosa intermittenza che rende le traiettorie dei fiati simili all’assommarsi di una fitta punteggiatura grafica dal tratto deciso.
Le restanti tre tracce rivelano e portano a compimento una sequenza palindroma che dalla più estrema saturazione, al limite del drone-noise (“Rege”), torna poi a collocarsi sulle imperfette diacronie del secondo segmento, rese questa volta con una grana sonora più spessa e con grevi dissonanze che appaiono come l’indice di un’ormai irreversibile transizione verso la sospensione tonale. La conclusiva title track, invece, ripresenta le altezze complementari del brano d’apertura in forma di triadi discendenti – eco scarnificata dei “Knee Play” posti ai due estremi dell’Einstein glassiano –, prima di abbandonarsi a una coda di lirici ‘vibrati’ e ipertoni che rasentano la trasparenza. Un commiato meno “programmatico”, quello del duo statunitense, che con le sue luminose risonanze lascia finalmente intravedere la via d’uscita dall’opprimente parentesi spazio-temporale che, nonostante tutto, ha ispirato questo avvincente incontro di talenti e sensibilità affini.

It’s impossible not to communicate: only the natural elements hold this exclusive power, while the action or inaction of the sentient being always derives from a voluntary choice, and with it inevitably produce meaning. This assumption is anything but self-evident, especially in the face of artistic expressions so linear and pared down to the bone that they apparently don’t need any further decoding: but it should be noted that, even in the uttermost detachment and illusion of a radically objectivating approach, somehow a residue of signification will always manage to make its way, an albeit pale reference to the subjects and the context that produced a given creative instance.
arb tells us of a shared solitude, of living and performing in a motionless present, aligning the breath with the phlegmatic pace of time – both individually and collectively understood. In the isolation imposed by the global lockdown, wind players Zachary Good and Ben Roidl-Ward were destined to share the limited space of an apartment in Edgewater, Chicago: and it was from this surreal form of domestic alienation that arose a relational practice tending toward a complete symbiosis of the sonic gesture; a harmony no longer divisible into its discrete components, crossed solely by the finest streaks and inflections of spontaneous psychoacoustic effects.
Thus, at first, clarinet and bassoon emerge from the same temporal furrow, with long sustained tones of about twenty seconds and short pauses for breath: like a kind of subdued and introverted antiphon, “Fairchild” evokes the chords of a pipe organ subtracted from the reverberation of its primary habitat, yet crossed by equally dense, almost tangible vibrations. With the second étude the two voices become misaligned, accentuating even more the beats resulting from the concomitance of immediately adjacent frequencies, following the example of the eminences Alvin Lucier and Phill Niblock. We then reach the arduous test of circular breathing: “Guby” is a tight and labored dialogue, once again played out on microtonal oscillations but with the supplementary pitfall of a very rapid staccato, a nervous intermittence that makes the trajectories of the winds look like the summation of a dense, hard-stroke graphic dotting.
The remaining three tracks reveal and bring to completion a palindrome sequence that from the most extreme saturation, bordering on drone-noise (“Rege”), then returns to settle on the imperfect diachronies of the second segment, in this case rendered with a thicker sound grain and with heavy dissonances that seem to suggest an irreversible transition towards tonal suspension. On the contrary, the concluding title track reiterates the complementary pitches of the opening piece in the form of descending triads – a stripped-down echo of the “Knee Play” placed at the two ends of Glass’ Einstein – before indulging in a coda of lyrical vibratos and overtones on the verge of transparency. A less “programmatic” farewell, that of the American duo, which through its luminous resonances finally lets us glimpse the way out of the oppressive space/time parenthesis that, despite everything, sparked this compelling encounter of kindred talents and sensitivities.