Linda Catlin Smith – Meadow

Mia Cooper, Joachim Roewer, William Butt

Louth Contemporary Music Society, 2020
contemporary classical

(ENGLISH TEXT BELOW)

La crescente affermazione autoriale di Linda Catlin Smith è certamente da attribuirsi, almeno in parte, al legame discografico che dal 2016 intrattiene con l’etichetta inglese Another Timbre, fucina tra le più autorevoli nell’ambito della nuova musica da camera. Ma persino in rapporto a quella che, per convenzione oramai consolidata, viene definita come estetica riduzionista, certi brani della compositrice americana sembrano incarnare il paradigma di un ritorno all’ordine “ragionato”: una direzione espressiva, più specificamente, che non dimentica e anzi cristallizza ulteriormente la lezione della scuola newyorkese (la ripetizione differente di motivi minimi, l’indeterminazione, l’approccio “oggettivante”) sino al punto di riconciliarsi con un’idea di armonia dal nitore secolare e quasi arcaico – in una parola, assoluto.

Come spesso accade, il reiterato accostamento visivo alle nature morte di Nancy Kembry ha finito per influenzare e arricchire la dimensione dell’ascolto: soggetti semplici e comuni come i frutti vengono isolati e ritratti con sobria dignità, avvolti in una luce tiepida e vibrante che li avvicina quasi più a Rembrandt che a Cézanne o Morandi. Parimenti limpida e sublimante appare la poetica di Smith, che con particolare evidenza si disvelava nei recenti, splendidi ‘portrait album’ Drifter (2017) e Wanderer (2018) ma che ora, accentrata nel solo trio d’archi “Meadow” (2019), acquista una qualità più che mai inequivocabile.


Eseguito con appassionata grazia da William Butt (violoncello), Mia Cooper (violino) e Joachim Roewer (viola), il brano inaugura una serie di pubblicazioni da parte della Louth Contemporary Music Society, suggestivamente intitolata “out of silence”: è ancora questo, infatti, il terreno su cui si gioca una parte considerevole della produzione contemporanea, come se i suoni stessi fossero pazientemente intagliati nel silenzio o scolpiti attorno a esso. E sebbene vi siano in realtà pochi attimi di completo arresto nella presente partitura di Smith, si percepisce distintamente uno sguardo rivolto a una malinconica quiete perduta, l’ordine imperfetto eppure incorrotto di uno scenario bucolico idealizzato.

“Un prato è un luogo semplice, nel quale certi elementi nascono spontaneamente; non è uno spettacolare giardino, ma se lo si guarda da vicino vi sono tanti diversi tipi di piante e piccoli fiori. È un luogo di infinite variazioni.”

Nell’incedere senza fretta ma deciso del trio si manifestano echi di polifonie rinascimentali, fuggevoli inflessioni barocche e romantiche, minute dissonanze in assenza di vibrato e chiaroscuri tonali che mutano nell’arco di un istante, come la luce del Sole che trapela brevemente da una spessa trama di nubi. L’ascolto immersivo conduce alla perdita della cognizione temporale laddove la mente accoglie immagini familiari che, nell’afflato perpetuamente contrastato della partitura, appaiono in definitiva ridotte alla loro pura essenza, liberate da stringenti connotazioni emotive.

In questo risiede, dopotutto, la sola indeterminatezza di “Meadow”: la creazione di uno spazio mentale che assottiglia il confine tra descrittivismo e astrazione, tra realtà vissuta e immaginata, dove il suono riottiene un atavico potere incantatorio che precede e trascende qualsiasi interpretazione individuale. Se si dovesse trovargli un nome più appropriato, potremmo a ragion veduta chiamarlo essenzialismo.

The growing authorial recognition of Linda Catlin Smith is certainly to be attributed, at least in part, to the discographic partnership she’s had since 2016 with the English label Another Timbre, one of the most authoritative breeding grounds for new chamber music. But even in relation to what, for a by now consolidated convention, is defined as reductionist aesthetics, certain pieces by the American composer seem to embody the paradigm of a “reasoned” return to order: an expressive direction, more specifically, which does not forget and, indeed, it further crystallizes the lesson of the New York School (different repetition of minimal motifs, indeterminacy, an “objectivating” approach) to the point of reconciling with an idea of harmony whose clarity is secular, even archaic – in a word, absolute.

As often happens, the reiterated visual pairing with Nancy Kembry’s still lifes has ended up influencing and enriching the sphere of listening: simple and common subjects such as fruits are isolated and portrayed with understated dignity, shrouded in a warm and vibrant light that almost brings them closer to Rembrandt than to Cézanne or Morandi. Equally limpid and sublimating appears Smith’s poetics, which revealed itself with particular evidence on her recent, splendid portrait albums Drifter (2017) and Wanderer (2018) but which now, concentrated only in the string trio “Meadow” (2019), takes on a quality more unmistakeable than ever.

Performed with passionate grace by William Butt (cello), Mia Cooper (violin) and Joachim Roewer (viola), the piece inaugurates a series of releases by the Louth Contemporary Music Society, suggestively titled “out of silence”: this, in fact, is still the terrain on which a considerable part of contemporary production is played out, as if sounds themselves were patiently carved in silence or sculpted around it. And although there are actually very few moments of complete arrest in Smith’s present score, one can distinctly perceive a gaze turned towards a lost melancholy stillness, the imperfect yet uncorrupted order of an idealized bucolic scenery.

“A meadow is a simple place, with elements that are there quite naturally; it’s not a spectacular garden, but if you look closely there are many different types of plants and tiny flowers. It is a place of infinite variation.”

In the trio’s unhurried but steady pace manifest themselves echoes of Renaissance polyphony, fleeting baroque and romantic inflections, minute dissonances in the absence of vibrato and tonal chiaroscuros changing in a matter of instants, like sunlight briefly transpiring from a dense texture of clouds. Immersive listening leads to a loss of temporal cognition where the mind welcomes familiar images which, in the perpetually contrasted afflatus of the score, ultimately seem reduced to their pure essence, freed from strict emotional connotations.

In this lies, after all, the only indeterminacy of “Meadow”: the creation of a mental space that narrows the boundary between descriptivism and abstraction, between lived and imagined reality, where sound regains an atavistic power of enchantment that precedes and transcends any individual interpretation. If a more appropriate name were to be found, one could advisedly call it essentialism.

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