Archon – Works for violin, percussion, and machine learning environment

Marek Poliks • Roberto Alonso

NEOS, 2023
generative music, avantgarde


(ENGLISH TEXT BELOW)

Sulle prime poteva sembrare una mera curiosità, un passatempo destinato come tanti altri a un rapido oblio, e invece era una sinistra profezia. Sono trascorsi appena un paio di anni da quando le app di intelligenza artificiale furono rese di dominio pubblico, offrendo alla comunità di Internet l’opportunità di mescolare input verbali attraverso i quali “ispirare” immagini poi generate autonomamente da un software.
Nel giro di poco lo zeitgeist informatico è divenuto anche quello estetico: Midjourney e Stable Diffusion sono, per certi versi, gli “artisti” visivi più originali e talentuosi attualmente in circolazione, laddove le avanguardie umane sembrano aver dato fondo alle proprie risorse e ripiegato sull’usato sicuro, spesso un manierismo della provocazione che gratifica soltanto gli stakeholders di un degenere mercato del gusto.

Non è propriamente una novità trovarsi a discutere di musica generativa, anche se finora si è trattato perlopiù di placide suite atmosferiche (Brian Eno), sonificazioni di dati grezzi (Alva Noto, Hecker) e destrutturazioni post-techno mutanti (Autechre). Molti altri, secondo diverse modalità, hanno assecondato istinti de-umanizzanti, sperimentato esercizi di sparizione autoriale, cercato insomma di scoprire quali musiche risiedano oltre i confini dell’intenzione e della coscienza. Queste fasi preparatorie, tuttavia, non riescono ugualmente ad attutire il senso di inquietudine – ma anche di morbosa eccitazione – che accompagna l’ascolto del software di sintesi Demiurge al lavoro, dietro impulso dei suoi artefici Marek Poliks e Roberto Alonso.

Il diabolico, ancorché incolpevole motore generativo facente capo alla piattaforma open source Archon emblematizza il trionfo e la tragedia di un progresso tecnologico che non ha potuto – né ha voluto – arrestarsi entro limiti ragionevoli, rigirando il coltello nella piaga di un soppiantamento prossimo venturo da parte delle macchine a scapito della stessa (e paradossalmente l’unica) specie che fosse in grado di progettarle.
È d’altronde facile immaginare con quale compiaciuta meraviglia i due sperimentatori, primi fra tutti, si siano prestati a questo gioco di specchi deformanti, lasciando che i loro concreti gesti sonori dessero il La ad una concitata orchestra fantasma il cui contrappunto, elaborato in tempo reale, risulta tanto estroso e sovrabbondante da oscurare quasi del tutto la sua matrice.

Certo, non è dandogli in pasto Mozart che Archon si sbizzarrisce in figure sonore tanto surreali ed elusive: è il violino di Roberto Alonso – successivamente in duo con il percussionista Christian Smith – a instradarlo verso il più puro atonalismo con tecniche estese memori dell’iconoclasta Lachenmann; un vocabolario di fischi e ruvidi stridori cui l’intelligenza artificiale risponde talvolta con improvvise sferzate elettroacustiche, talaltra con nebulose di armonie decostruite destinate a montare e dissolversi senza soluzione di continuità, dentro e fuori le quinte immaginarie dei canali stereo. Un saggio di stile tutt’altro che coerente e “levigato”, al punto che le sue trame schizoidi echeggiano incidentalmente certe derive del nuovo sound design elettronico, con particolare riferimento all’incubo digitale LEXACHAST di Amnesia Scanner e Bill Kouligas – un magma post-tutto che per lungo tempo ancora manterrà intatta la sua allarmante attualità.

Al nostro posto, un critico scettico e sufficientemente malizioso affermerebbe che Archon abbia ancora molto da imparare su come si fa la musica. Il punto è che per tale sorta di macchina l’apprendimento è, di fatto, il solo modus operandi concesso, l’unica condotta che le consenta di avanzare anziché girare a vuoto, aggiornando a ogni passo la sua deviante pratica relazionale. D’altronde, tecnicamente, essa nemmeno sa di produrre della musica, bensì interpreta e restituisce ogni input in forma di sterminate sequenze binarie, per loro natura scevre da qualsivoglia significazione; e con ciò, forse, avvicina l’essenza della Musica persino più di quanto pretendano di fare i nostri intenti espressivi.

Molte altre sono le questioni sollevate dal progetto in sé come dall’ascolto della prima di infinite possibili sue “riscritture”. Limitandosi alle implicazioni filosofiche, non si potrà fare a meno di riscontrare una tendenza accelerazionista, quel cupio dissolvi che spinge i due sperimentatori ad anticipare idealmente la loro soccombenza, pur senza privarsi dello spettacolo grand-guignolesco che vi prelude. Tuttavia il processo è ormai stato innescato e un dietrofront risulta improbabile, almeno fin quando non si sarà raggiunto il fondo del tunnel. Sono questi stessi, acerbi approdi estetici a invocare ulteriori sforzi in direzione di una musica potenziale non ancora rivelata: una missione distopica e folle, forse destinata a un clamoroso fallimento, e che perciò potrebbe finire per instillare nuova fiducia nelle capacità creative del fattore umano.


At first it might have seemed like a mere curiosity, a pastime destined like so many others to rapid oblivion, but instead it was a sinister prophecy. Barely a couple of years have passed since artificial intelligence apps were put into the public domain, offering the Internet community the opportunity to mix verbal inputs through which to “inspire” images then generated autonomously via software. Midjourney and Stable Diffusion are, in some ways, the most original and talented visual “artists” currently in circulation, whereas the human avant-garde seems to have depleted its resources and instead resorted to the safe second-hand, often a mannerism of provocation that only gratifies the stakeholders of a degenerate market of taste.

It is not exactly a novelty to find oneself discussing generative music, although so far it has mostly been about placid atmospheric suites (Brian Eno), raw data sonification (Alva Noto, Hecker) and mutant post-techno deconstructions (Autechre). Many others, in different ways, have indulged de-humanising instincts, experimented with exercises in authorial disappearance, tried, in short, to discover what kind of music resides beyond the boundaries of intention and consciousness. These preparatory stages, however, still fail to dampen the sense of unease – but also morbid excitement – provoked by listening to the Demiurge synthesis software at work, at the instigation of its creators Marek Poliks and Roberto Alonso.

The diabolical, albeit guiltless, generative engine referring to the open source platform Archon emblematizes the triumph and tragedy of a technological progress that could not – and would not – stop within reasonable limits, twisting the knife in the wound of a forthcoming supplanting of machines at the expense of the same (and ironically the only) species that was able to design them.
On the other hand, one can easily imagine with what smug amazement the two experimenters, before anyone else, have lent themselves to this game of deforming mirrors, letting their concrete sonic gestures kickstart an agitated phantom orchestra whose counterpoint, elaborated in real time, is so whimsical and overabundant as to almost completely obscure its matrix.

Of course, it is not by feeding it Mozart that Archon gives vent to such surreal and elusive sound figures: It is Roberto Alonso’s violin – subsequently in duo with percussionist Christian Smith – that guides him towards sheer atonalism through extended techniques reminiscent of the iconoclast Lachenmann; a vocabulary of whistlings and rough screechings to which the artificial intelligence responds at times with sudden electroacoustic lashings, other times with nebulae of deconstructed harmonies bound to assemble and dissolve seamlessly, in and out of the imaginary curtains of the stereo channels. A sample of style that is anything but coherent and “polished”, to the point that its schizoid textures incidentally echo certain drifts of new electronic sound design, with particular reference to the digital nightmare LEXACHAST by Amnesia Scanner and Bill Kouligas – a post-everything magma that will likely retain its alarming topicality for a long time to come.

In our place, a skeptical and sufficiently malicious critic would argue that Archon still has a lot to learn about how music is made. The point is that for this sort of machine, learning is, in fact, the only possible modus operandi, the only conduct that allows it to move forward rather than move in circles, updating its deviant relational practice at every step. On the other hand, technically, it doesn’t even know it is producing music, but rather interprets and returns every input in the form of endless binary sequences, by their very nature devoid of any signification; and with this, perhaps, it gets even closer to the essence of Music than our expressive intentions pretend to do.

Many other questions are raised by the project itself as by listening to the first of its countless possible “rewritings”. Restricting oneself to the philosophical implications, one cannot help but notice an accelerationist tendency, that cupio dissolvi that compels the two experimenters to ideally anticipate their succumbing, without depriving themselves of the grand-guignolesque spectacle that preludes it. However, the process has now been triggered and a turnaround is unlikely, at least until the bottom of the tunnel is reached. It is these same, unripe aesthetic outcomes that invoke further efforts in the direction of an as-yet unrevealed potential music: a dystopian and foolish mission, perhaps destined for resounding failure, and one that may therefore end up instilling new confidence in the creative abilities of the human factor.

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