Maxime Denuc – Nachthorn

Vlek, 2022
minimalism


(ENGLISH TEXT BELOW)

Qui accade qualcosa di semplice e straordinario, qualcosa che oggi, con il graduale ritorno all’analogico e all’unplugged, dovrebbe verificarsi assai più di frequente: l’elettronica si mette al completo servizio dell’universo acustico, pur mantenendo intatte entrambe le matrici e rafforzandone le inalienabili specificità.
Siamo presso la St. Antonius Kirche di Düsseldorf, il cui organo a canne principale è stato implementato con un sistema di controllo informatico integrale, tale per cui una qualsiasi composizione realizzata con un software di notazione MIDI può essere eseguita senza alcun intervento manuale. Uno strumento essenzialmente meccanico, dunque, che diviene pura macchina, artefice passivo di un’operazione musicale predeterminata, non soggetta all’umore e alle accidentalità cha caratterizzano l’esecuzione dal vivo di un (fallibile) essere umano.


Un atto di lesa maestà? Un sacrilegio? Non importa: l’organo ha ancora molte altre vite da vivere, e lo sperimentatore belga Maxime Denuc sceglie di magnificarne le proprietà timbriche e le risonanze cumulative con applicazioni formali eccitanti e talvolta estreme, attingendo a ogni stilema utile allo scopo. Partiture che, in certi casi, nemmeno il più grande virtuoso potrebbe mai affrontare con successo, laddove gli impulsi elettrici vantano invece una completa ubiquità, il potenziale per agire su ogni registro contemporaneamente, come molteplici mani e piedi invisibili.
C’è indubbiamente un sentore fantasmatico, finanche diabolico, nel dispiego di un’energia così dirompente eppure calcolata al millesimo: ma l’adesione al vero, alle colonne d’aria che si riverberano fisicamente nello spazio acustico, fa sì che Nachthorn non si riduca a un freddo esercizio d’assenza postmoderno, bensì celebri un’inedita, epifanica reviviscenza.

Si va dalla stasi apparente di un’armonia drone alla più rigorosa ripetizione minimalista, con doveroso ossequio all’illustre precursore Philip Glass, tanto per le vorticose suite elettriche quanto per le loro successive trascrizioni (Glass Organ Works, eseguito da Donald Joyce); diverse altre incursioni sembrano invece far proprio il mood, ancor prima del linguaggio, di un pulsare dub techno strisciato fuori dal club e disseminato tra le nervature del più plumbeo paesaggio urbano. Ed è quest’ultima “risemantizzazione” a intrappolare più d’ogni altra tra le sue spire, le frequenze basse e le alte avvolte da un fitto strato di nebbia percettiva che ne smussa i contorni e le addensa in un corpo sonoro indiviso e soverchiante, un’ombra che si espande e ritrae al tempo di un furioso ritmo cardiaco.

Da meccanico a macchinico, con i “capricci” di Denuc l’organo a canne va incontro a un destino più onorevole di quanto fosse lecito aspettarsi: ciascuna delle otto sequenze persegue il proprio concetto di saturazione, eccede in forma e colore quel tanto che permetta di sfiorare l’impossibile, di solleticare quelle forze sovrumane che non risiedono al di là del cielo ma nascoste dentro lo strumento, in attesa di essere sbloccate dall’ingegno artistico. Anziché sacrale, una trascendenza “meta-musicale” ispirata da un esito chimerico paragonabile a una spiazzante – e intrigante – dissonanza cognitiva.


Something simple and extraordinary happens here, something that today, with the gradual return to the analogue and the unplugged, should occur much more frequently: electronics puts itself at the complete service of the acoustic universe, while keeping both matrices intact and reinforcing their inalienable specificities. 
We are at the St. Antonius Kirche in Düsseldorf, whose main pipe organ has been implemented with an integral computer-controlled system, such that any composition created with a MIDI notation software can be played without any manual intervention. An essentially mechanical instrument, then, becoming a pure machine, the passive performer of a predetermined musical operation, not subject to the moods and accidentalities that characterise the live performance of a (fallible) human being.

An act of lese majesty? A sacrilege? Doesn’t matter: the organ still has many more lives to live, and Belgian experimenter Maxime Denuc chooses to magnify its timbral properties and cumulative resonances with exciting and sometimes extreme formal applications, drawing on every stylistic device useful for the purpose. Scores that, in some cases, even the greatest virtuoso could never successfully tackle, where electrical impulses instead boast complete ubiquity, the potential to act on every register simultaneously like multiple, invisible hands and feet.
There is undoubtedly a phantasmatic, even diabolical scent in the deployment of such disruptive yet calculated energy, but the adherence to the real thing, to the columns of air that physically reverberate in the acoustic space, ensures that Nachthorn is not reduced to a cold, postmodern exercise in absence, but rather celebrates an unprecedented, epiphanic revival.

Here we range from the apparent stasis of a droning harmony to the most rigorous minimalist repetition, with due homage to the illustrious forerunner Philip Glass, as much for the swirling electric suites as for their subsequent transcriptions (Glass Organ Works, performed by Donald Joyce); several other incursions seem instead to make their own the mood, even before the language, of a dub techno pulse crawled out of the club and disseminated through the veins of the most leaden urban landscape. And it’s precisely this latter “resemantization” that grips more than any other within its coils, the low and high frequencies enveloped in a thick layer of perceptive fog that smoothes their contours and coagulates them into an undivided and overpowering body of sound, a shadow that expands and retracts at the rate of a furious heartbeat.

From mechanical to machinic, with Denuc’s “capriccios” the pipe organ meets a more honourable destiny than one might have expected: each of the eight sequences pursues its own concept of saturation, exceeds in form and colour just enough to touch on the impossible, to tickle those superhuman forces that do not reside beyond the sky but actually hidden inside the instrument, waiting to be unlocked by artistic ingenuity. A “meta-musical”, rather than sacred, transcendence inspired by a chimerical outcome comparable to a disorienting – and intriguing – cognitive dissonance.

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