John McGuire – Pulse Music

Unseen Worlds, 2022
minimalism

(ENGLISH TEXT BELOW)

Nulla di più naturale e inavvertito di una pulsazione, il segnatempo primigenio dal quale si sviluppa la vita e, di conseguenza, la musica tutta. Un agente propulsivo discreto ma ineludibile, letteralmente il respiro soggiacente a qualunque espressione che si serva del tempo per manifestarsi e giungere a compimento. Tale cellula risalta con maggiore evidenza nelle musiche rituali e popolari, attraverso ritmi che l’orecchio e il corpo possono facilmente assecondare, ma nessuna forma sonora può davvero rinunciare a un fattore che risulta intrinseco alla sua stessa fenomenologia.

Solo in un certo senso, dunque, la corrente minimalista fu un’avanguardia, ma d’assoluta rilevanza per la radicalità con cui ha rimesso al centro delle proprie composizioni un costante pulsare, motore immobile attorno al quale avviene il graduale mutamento della materia musicale. Nelle suite degli albori è proprio il processo, l’ininterrotto farsi dell’intreccio ritmico e armonico a costituire l’essenza del gesto artistico, una musica “senza memoria né previsione […] una pura presenza sonora liberata dalla struttura drammatica” (Philip Glass).
Benché americano di nascita e di pochi anni più giovane rispetto ai suoi celebrati esponenti, John McGuire è scientemente rimasto alla periferia di quel movimento rivelatosi in seguito tanto longevo quanto trasversale, arrivando per vie laterali a una propria sintesi formale, corroborata da una ferrea impostazione accademica. E difatti è soltanto dopo trent’anni di residenza in Germania, e dunque a stretto contatto con l’humus culturale post-Darmstadt, che nel 1998 McGuire ritorna oltreoceano per assumere la cattedra di composizione alla Columbia University di New York.


Gli anni formativi di McGuire sono segnati dall’incontro con luminari del Novecento quali Stockhausen, Penderecki e Gottfried Michael Koenig, quest’ultimo il suo mentore e viatico per il primo contatto con gli studi elettronici, a Utrecht e poi a Colonia, dove assieme ad alcuni sodali fonda il gruppo ‘Feedback Studio’. Al centro dell’iniziativa, tra attivismo teorico e performativo, è posto l’EMS VCS-3, ovvero il sintetizzatore con controllo di voltaggio prodotto dagli Electronic Music Studios di Londra: divenuto uno degli strumenti simbolo del krautrock e della musica progressiva a livello mondiale, esso permette al giovane McGuire di elaborare il suono secondo parametri esatti e organizzarlo in singoli loop paralleli, commutandone le proprietà con pochi calcolati gesti sul piano comandi dei moduli.
La conseguente produzione, qui riunita per la prima volta nella sua interezza, conserva una sua unicità in forma e spirito persino nel vasto panorama del minimalismo coevo e non, un mood gentile e inebriante che sembra coniugare anzitempo il piglio naif della West Coast di “Blue” Gene Tyranny e i cullanti artifici atmosferici del kankyō ongaku giapponese.

Così si anima d’improvviso “Pulse Music I” (1975-76), ingresso in medias res nell’immaginario rigoroso di McGuire. Un’alternanza di schermi di luce entro i quali si profilano almeno quattro livelli principali di attività sonora: una linea di tono statico, una intermittenza ritmica puntiforme (la pulsazione), un motivo di quattro note simile a un dolce rintocco di campane, e in ultimo, sottotraccia, un più rapido fibrillare di note complementari che accentuano il moto apparentemente ondulatorio dell’insieme. Dopo alcune iterazioni lo scenario si modifica improvvisamente, si sposta su altre altezze pur preservando il modo maggiore e la vividezza dei colori: è quanto di più prossimo a un caleidoscopio uditivo, laddove il dialogo tra geometrie esatte e la sua circolarità sospingono la composizione lungo una traiettoria potenzialmente interminabile.

Unico brano della raccolta eseguito dal vivo, l’intermedio adattamento orchestrale “Pulse Music II” (1975-77) è il vero anello di congiunzione con l’estetica di Steve Reich, il quale peraltro portò a compimento il capolavoro “Music for 18 Musicians” proprio nello stesso periodo. Il marcato incedere percussivo dei pianoforti dettano il tempo sul bordone alimentato da archi e fiati, campitura densa e impercettibilmente cangiante a seconda dell’attacco di ciascuno strumento. La qualità piuttosto mediocre della registrazione lascia a malapena intuire le sfumature armoniche che senza dubbio si annidano nella nebulosa di timbri acustici, un ecosistema di musica pura e anti-descrittiva che nell’ascolto mediato non potrà mai davvero esprimersi nella sua vibrante totalità.

Benché sostanzialmente assimilabile alla suite originaria, in “Pulse Music III” (1978-79) i piani concorrenti dell’azione musicale sono le catene produttive di una materia ancor più parcellizzata e caotica nella sua distribuzione spaziale, pur seguitando a scorrere lungo binari attentamente predisposti. Uno sfarfallio di pulviscoli impazziti si agita in questi compartimenti stagni, come mulinando intorno all’esile nucleo metronomico che risulta perlopiù offuscato dall’enorme quantità di input para-ritmici messi in gioco da McGuire, che al termine del ciclo lascia risuonare per venti secondi quel singolo tono statico che sin da principio ne guidava le mutevoli fasi.

Col senno di poi – ed essendo d’altronde stata collocata all’ultima posizione della tracklist –, “108 Pulses” (1975) non può che apparire come una sorta di laboratorio, l’esito provvisorio di una pratica creativa ancora in fieri ma assai prossima a un approdo decisivo. Due note alternate vanno di pari passo con il perpetuo trillare di campanelli elettronici in andirivieni lungo i canali stereo, con un accento posizionato a ciascuna delle due estremità. Una struttura semplice, priva di evoluzioni ulteriori, della quale è tuttavia interessante fare esperienza a distanza e in prossimità, spostando il punto focale della percezione in aree sempre diverse all’interno di questo tableau vivant astratto: al che si renderà decisamente più palese la complessità soggiacente alla fitta trama di stimoli giustapposti con precisione millimetrica, non estranea a tenui effetti psicoacustici tali da implementarne la già sovrabbondante gamma cromatica.

Con le complementari declinazioni della sua ‘Pulse Music’, John McGuire può a ragione incarnare l’emblema della mission dichiarata dall’etichetta Unseen Worlds, virtuosa promotrice di “musica d’avanguardia poco rappresentata e rivoluzionaria, eppure accessibile”. Nel sottile ingegno di questi ferventi quadri sonori si può ugualmente trovare un confortevole rifugio dallo stress così come un parco di avvincenti stimoli cognitivi, un puzzle che si risolve senza sforzo alcuno nella mente di qualunque ascoltatore.

There’s nothing more natural and unsolicited than a pulsation, the primeval timekeeper from which life and, consequently, all music develop. A discreet yet ineludible propulsive agent, literally the breath underlying any expression that requires time to manifest itself and come to fruition. This unit stands out more clearly in ritual and popular music, through rhythms that the ear and the body can easily indulge, but no sound form can really renounce a factor that is intrinsic to its own phenomenology.

Only in a certain sense, therefore, was the minimalist current an avant-garde, but of absolute relevance for the radicality with which it placed a constant pulse at the core of its compositions, an “unmoved mover” around which the gradual change of musical matter takes place. In the early suites it is precisely the process, the uninterrupted development of the rhythmic and harmonic weave that constitutes the essence of the artistic gesture, a music “without memory nor prediction […] a ‘presence,’ freed from dramatic structure, a medium of pure sound.” (Philip Glass).
Although American by birth and a few years younger than its most honored exponents, John McGuire has knowingly remained on the periphery of that movement which later proved to be as long-lived as it was transversal, surreptitiously reaching a formal synthesis of his own, corroborated by an iron academic approach. And it was in fact only after thirty years of residency in Germany, and therefore in close contact with the post-Darmstadt cultural humus, that in 1998 McGuire would return overseas to take up the chair in Composition at Columbia University in New York City.

McGuire’s formative years were marked by his meeting with twentieth-century luminaries such as Stockhausen, Penderecki, and Gottfried Michael Koenig, the latter being his mentor and the viaticum for his first contact with electronic studies, in Utrecht and then in Cologne, where together with some associates he founded the ‘Feedback Studio’ group. At the heart of the initiative, between theoretical and performative activism, was the EMS VCS-3, meaning the voltage-control synthesizer produced by the Electronic Music Studios in London: having later become one of the signature instruments of krautrock and progressive music worldwide, it allowed young McGuire to elaborate sound according to exact parameters and to organize it in single parallel loops, switching its properties with a few calculated gestures on the commands of the modules.
The resulting output, here brought together in its entirety for the first time, retains its singularity of form and spirit even within the vast panorama of both coeval and subsequent minimalism, a gentle and intoxicating mood that seems to combine ahead of time the West-Coast naive manner of “Blue” Gene Tyranny with the lulling atmospheric artifices of Japan’s kankyō ongaku.

Thus “Pulse Music I” (1975-76) suddenly comes alive, as an in medias res entrance into McGuire’s rigorous imagery. An alternation of light screens within which at least four main levels of sound activity are outlined: a line of static tone, a punctiform rhythmic intermittence (the pulse), a four-note motif akin to a soft toll of bells, and lastly, undercurrent, a more rapid fibrillation of complementary notes that accentuate the apparent undulatory motion of the whole. After a few iterations, the scenario suddenly changes, transits to other pitches while preserving the major mode and vividness of the colors: it’s the closest thing to an aural kaleidoscope, where the dialogue between exact geometries and its circularity push the composition forward along a potentially endless trajectory.

The only piece of the collection performed live, the intermediate orchestral adaptation “Pulse Music II” (1975-77) is the true link with the aesthetics of Steve Reich, who coincidentally completed his masterpiece “Music for 18 Musicians” during the same period. The marked percussive cadence of the pianos dictates the tempo on the drone fueled by strings and winds, a dense and imperceptibly shifting texture dependent on the attack of each instrument. The rather mediocre quality of the recording barely suggests the harmonic nuances that undoubtedly nest in the nebula of acoustic timbres, an ecosystem of pure, anti-descriptive music that through mediated listening couldn’t possibly express itself in its vibrant totality.

Although substantially similar to the original suite, on “Pulse Music III” (1978-79) the concurrent planes of musical action are the production chains of a matter even more fragmented and chaotic in its spatial distribution, while still flowing along carefully arranged tracks. A flicker of crazed dust bustles within these watertight compartments, as if whirling around the slender metronomic core that gets mostly overshadowed by the sheer quantity of para-rhythmic inputs brought into play by McGuire, who at the end of the cycle lets resonate for twenty seconds that single static tone which has been governing its changing phases since the beginning.

With hindsight – and having been placed last in the tracklist –, “108 Pulses” (1975) can but appear as a sort of laboratory, the provisional outcome of a creative practice still in progress but indeed close to a decisive landing. Two alternating notes go hand in hand with the perpetual trill of electronic chimes running back and forth along the stereo channels, with an accent placed at each end. A simple structure, devoid of further evolutions, which is nevertheless interesting to experience at a distance and in proximity, shifting the focal point of one’s perception to always different areas of this abstract tableau vivant: thereupon the underlying complexity of the dense web of stimuli juxtaposed with millimetric precision will make itself decidedly more evident, while also not being foreign to subtle psychoacoustic effects such as to implement the already overabundant chromatic range.

With the complementary declinations of his ‘Pulse Music’, John McGuire may very well embody the emblem of the mission stated by the Unseen Worlds label, the virtuous promoter of “unheralded and revolutionary, yet accessible, avant-garde music”. In the subtle ingenuity of these fervent sound canvases one can equally find a comfortable refuge from stress as well as a pool of compelling cognitive stimuli, a puzzle that can solve itself effortlessly in the mind of any listener.

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