Nonclassical, 2022
drone folk, contemporary classical

(ENGLISH TEXT BELOW)
Nessuno studio d’ambito etnomusicologico dovrebbe mai risolversi nell’indebita appropriazione di forme espressive che, molto spesso, sono radicate in secoli di costumi sociali e religiosi impossibili a replicarsi. È per contro lodevole l’intento di far riemergere la voce di culture che, con il loro approccio vergine al suono acustico, gli abbiano conferito una valenza sacrale e trascendente, una linfa che oggi più che mai torna ad alimentare la giovane composizione sperimentale.
Così anche la poetica dell’autrice e violinista britannica Jasmine Morris si dimostra strenuamente rivolta alla conquista di un sentimento del tempo remoto, alla generazione ex novo di una dimensione iniziatica entro cui ogni elemento sonoro non evochi altro che sé stesso, come una camera d’eco permeabile soltanto al manifestarsi di solenni presenze ataviche.
Non vi è dunque alcun accostamento o mélange posticcio nel neo-ritualismo di Astrophilia, quanto una feconda simbiosi con l’essenza profonda – ancorché impenetrabile dal nostro punto di vista – della cosmologia vichinga e del suo apparato simbolico. In ragione di ciò, l’utilizzo di strumenti tradizionali a fianco degli archi (il tutto a sua volta processato per via elettronica) non mira al semplice ricalco di figure e tecniche esecutive forzosamente traslate nel presente, e al contrario rivendica una morfologia musicale inedita e autonoma, inequivocabilmente contemporanea, foriera di visioni ugualmente capaci di travalicare le contingenze spazio-temporali.
Uno scenario di nitida e vigorosa tonalità si spalanca tutto d’un tratto al principio di questo fiero esordio discografico, con il virtuale moltiplicarsi della voce di Mieko Shimizu in un lacerante canto monodico riflesso sulle superfici di un’ampia volta architettonica. Ulteriori reminiscenze medievali e barocche si intrecciano indissolubilmente col vibrare di fiati che gettano un ponte tra folk nordico e Pūoro Māori (l’etnografo svedese Per Runberg), declinazioni complementari di una medesima matrice drone priva di univoche filiazioni. Solo nel quartetto d’archi “Midgard” (affidato al Tippett Quartet) si affaccia a sprazzi il lume di una pur sfuggente modernità, attraversata da rapidi trilli e armonici affini al naturalismo mitico di Salvatore Sciarrino; ancor più brevemente, poi, si avverte l’afflato dell’estremo crepuscolo romantico, lacerti sospesi tra la ‘Suite Lirica’ di Alban Berg e la ‘Louange’ di Messiaen dall’abisso del campo di concentramento.
Voce inesausta di un’arcaicità totalizzante, Astrophilia ci investe con una pluralità di suggestioni improvvisamente non più distanti fra loro, collassate motu proprio in un orizzonte espressivo condiviso, a-storico e a-geografico, ibrido per sua intima vocazione. Ed è assai raro che una sintesi così pregnante si compia senza apparente esitazione come nel caso di Jasmine Morris, un nome che, continuando su questo percorso, non faticherà a imporsi all’attenzione di un pubblico vieppiù incline a tali fervide alterità sonore.
No ethnomusicological study should ever result in the undue appropriation of expressive forms which, very often, are rooted in centuries of social and religious customs that are impossible to replicate. Indeed laudable, on the other hand, is the intent to let re-emerge the voice of cultures that, with their virgin approach to acoustic sound, have given it a sacred and transcendent value, a lymph that today more than ever returns to fuel the young experimental composition.
Thus also the poetics of British author and violinist Jasmine Morris proves to be strenuously aimed at the conquest of a sentiment of remote time, at the ex novo generation of an initiatory dimension where each sonic element evokes nothing but itself, like an echo chamber permeable only to the manifestation of solemn, atavistic presences.
There is, therefore, no contrived juxtaposition or mélange in the neo-ritualism of Astrophilia, but rather a fruitful symbiosis with the profound essence – albeit impenetrable from our point of view – of Viking cosmology and its symbolic apparatus. For this reason, the use of traditional instruments alongside the stringed ones (all in turn processed electronically) does not seek the simple mimicry of figures and playing techniques forcibly transferred into the present; on the contrary, it claims an unprecedented and autonomous musical morphology, unequivocally contemporary, a harbinger of visions equally capable of going beyond space-time contingencies.

A scenery of stark and vigorous tonality suddenly opens up at the outset of this fierce recording debut, with the virtual multiplication of Mieko Shimizu’s voice in a searing monodic chant reflected on the surfaces of a vast architectural vault. Further medieval and baroque reminiscences are inextricably intertwined with vibrating winds that bridge the gap between Nordic folk and Pūoro Māori (Swedish ethnographer Per Runberg), complementary declinations of the same drone matrix, devoid of univocal affiliations. Only with the string quartet “Midgard” (entrusted to the Tippett Quartet) does the light of an elusive modernity appear in flashes, crossed by rapid trills and harmonics akin to Salvatore Sciarrino’s mythical naturalism; even more briefly, then, one can perceive the afflatus of the ultimate romantic twilight, fragments suspended between Alban Berg’s ‘Lyric Suite’ and Messiaen’s ‘Louange’ from the abyss of the concentration camp.
The inexhaustible voice of a totalizing archaicity, Astrophilia invests us with a plurality of suggestions suddenly no longer distant from each other, collapsed motu proprio into a common expressive horizon, non-historical and non-geographic, hybrid by intimate vocation. And it’s considerably rare that such a poignant synthesis takes place without seeming hesitation as in the case of Jasmine Morris, a name that, were it to continue along this path, will easily draw the attention of an audience increasingly prone to such fervid sonic alterities.