Buh Records, 2021
experimental

(ENGLISH TEXT BELOW)
Nessuno può ambire a creare una musica realmente propria senza praticare un costante spaesamento, dimenticando ogni stilismo e risalendo invece alla fonte primigenia della materia sonora, per poi di lì giungere a immaginare una nuova genesi espressiva. Culti tardivi nascono attorno a figure artistiche così ardite, come nel caso di Harry Partch e di Harry Bertoia, troppo reclusivi e senza compromessi per trovare riscontro presso il pubblico del loro tempo.
Ora i tempi sono maturi per riesumare anche l’opera dell’eccentrico Walter Smetak (1913–1984), svizzero di nascita ma brasiliano d’adozione: un talento perlopiù sconosciuto a livello internazionale ma le cui invenzioni strumentali (in tutto circa 150) non mancarono di affascinare i padrini della tropicália Gilberto Gil e Caetano Veloso, al punto da convincerli a produrre ed editare il suo primo LP (Smetak, Philips, 1974).
Alla Buh Records di Luis Alvarado va il merito del progetto di ristampa degli unici due album a firma di Smetak, e alla contestuale compilazione della presente raccolta di brani inediti: tredici microcosmi acustici concepiti da artisti svizzeri o sudamericani, accomunati da un approccio artigianale e una curiosità fenomenica che li portano a fabbricare in autonomia i loro strumenti, col chiaro intento di accogliere soluzioni che possano infondere uno stupore arcaico nel disvelarsi della loro distintiva natura sonorum – esiti altrimenti difficilmente raggiungibili con mezzi appesantiti da secoli di storia e tradizione esecutiva.
Se a posteriori vi fosse l’intento, implicito o meno, di incuriosire il grande pubblico, il miglior espediente sarebbe quello di indagare dietro le quinte del processo costruttivo e performativo, magari offrendo un ampio corredo fotografico che soddisfi qualunque curiosità in merito agli strumenti utilizzati. Ma se invece la volontà ultima è quella di garantirsi un’esperienza d’ascolto incondizionata, allora è bene mantenere intatta l’aura acusmatica e quasi misterica delle registrazioni, così che gli objetos musicais possano liberamente intonare il loro canto amorfo, svincolato dalla significazione e non più riducibile alla piano della mera fisicità.
Solo così si può idealmente agire al di fuori del tempo storico, stimolando corde, pelli e metalli come avi millenari in cerca di un’armonia sconosciuta e obliqua, o come novelli Moondog in contatto diretto col proprio ritmo interiore, dimentico delle “belle arti” e dei canoni di derivazione accademica.
Nel suo frammento “Icaro”, ad esempio, Claudio Merlet genera una saturazione di semitoni e vibrazioni residuali tale da evocare l’incessante rintocco di una campana avvertita a distanze diverse nello stesso momento. Reminiscenze aborigene, irlandesi e puramente naturalistiche affiorano senza soluzione di continuità negli “Aerodrones” di Javier Bustos, il respiro profondo del sottosuolo che si risveglia.
Con “Música Nocturna”, invece, Edgardo Rudnitzky mescola sinistre percussioni tonali a sfregamenti su corde che sembrano emulare rantoli umani. In maniera analoga anche Juan Pablo Egúsquiza e il duo di Álvaro Icaza e Verónica Luyo conservano lo spirito della nuova improvvisazione acustica, alimentando con gesti decisi un terreo e stridente “sonorismo” quantomai prossimo all’incorrotto manifestarsi degli elementi.
Accenni di familiarità formale si presentano nei contributi di Ruben Dhers, tra pizzicati e diafane tessiture atmosferiche, e di Marco Scarassatti, l’Oriente fantastico di una sorta di shamisen dal timbro più morbido e sfuggente. Non mancano poi gli sconfinamenti nell’immateriale: a partire da macchine e installazioni d’alto profilo ingegneristico, Cod.Act attua manipolazioni in stereo di ventate elettroniche da altri orizzonti galattici, mentre Nicole L’Huillier assomma decostruzioni ritmiche e intrecci di pattern sintetici in costante metamorfosi.
Da ultimo è Zimoun ad azionare il crepitio di minuscoli oggetti in collisione, riportandoci all’incanto di una primissima, innocente infanzia dove i suoni più semplici potevano appagare i nostri recettori sensoriali, senza altra finalità che la scoperta dell’invisibile legame tra l’azione manuale e la sua controparte uditiva. Col medesimo spirito vale la pena di addentrarsi in questo tributo al visionario Walter Smetak, tra i padri putativi di una scena sperimentale che ancora oggi vede il Sud America arricchirsi di formidabili talenti creativi.
Pieces by: Maria Anália (Brazil), Marco Scarassatti (Brazil), Phillipp Laeng (Switzerland), Ruben Dhers (Venezuela), Claudio Merlet (Chile), Javier Bustos (Argentina), Álvaro Icaza and Verónica Luyo (Perú), Juan Pablo Egúsquiza (Perú), Edgardo Rudnitzky (Argentina), NicoleL’Huillier (Chile), Zimoun (Switzerland), Cod.Act (Switzerland), O Grivo (Brazil)

No one can aspire to create a music truly of his own without practicing a constant disorientation, forgetting all stylism and instead going back to the primitive source of the sonic material, from which starting to imagine a new expressive genesis. Belated cults are born around such daring artistic figures, as in the case of Harry Partch and Harry Bertoia, too reclusive and uncompromising to find a response from the public of their time.
Now the time is ripe also to revive the work of the eccentric Walter Smetak (1913–1984), Swiss by birth but Brazilian by adoption: a talent mostly unknown internationally but whose instrumental inventions (around 150 in all) didn’t fail to fascinate the godfathers of tropicália Gilberto Gil and Caetano Veloso, to the point of convincing them to produce and edit his first LP (Smetak, Philips, 1974).
Credit is due to Luis Alvarado’s Buh Records for the reissue project of Smetak’s only two albums, and also for the contextual compilation of this collection of new pieces: thirteen acoustic microcosms conceived by Swiss or South American artists, united by an artisanal approach and a phenomenal curiosity that lead them to manufacture their instruments autonomously, with the clear intention of welcoming solutions that can instill an archaic amazement in the unveiling of their distinctive natura sonorum – results otherwise difficult to reach through means burdened by centuries of history and playing tradition.
If in retrospect there was the more or less implicit intention to intrigue the general public, the best expedient would be to investigate behind the scenes of the constructive and performative process, perhaps displaying a large photogallery to satisfy any curiosity about the tools used. But if, instead, the ultimate goal is to ensure oneself an unconditional listening experience, then it’s best to keep intact the acousmatic and almost mysteric aura of the recordings, so that the objetos musicais may freely intone their amorphous song, released from signification and no longer reducible to the plane of mere physicality.
Only in this way can one ideally act outside of historical time, stimulating strings, skins and metals as millennial ancestors in search of an unknown and oblique harmony, or as new Moondogs in direct contact with their own inner rhythm, oblivious to the “fine arts” and canons of academic derivation.
In his fragment “Icaro”, for example, Claudio Merlet generates a saturation of semitones and residual vibrations evoking the incessant tolling of a bell simultaneously heard at different distances. Aboriginal, Irish and purely naturalistic reminiscences emerge seamlessly in Javier Bustos’ “Aerodrones”, the deep breath of the awakening subsoil.
With “Música Nocturna”, on the other hand, Edgardo Rudnitzky mixes sinister tonal percussions with a rubbing on strings that seems to emulate human gasps. Similarly, Juan Pablo Egúsquiza and the duo of Álvaro Icaza and Verónica Luyo also preserve the spirit of new acoustic improvisation, fueling with decisive gestures an earthy and strident “sonorism” particularly close to the uncorrupted manifestation of the elements.
Hints of formal familiarity appear in the contributions by Ruben Dhers, between pizzicatos and diaphanous atmospheric textures, and by Marco Scarassatti, the fantastical East of a sort of shamisen with a softer and more elusive timbre. Then there’s also a few encroachments into the immaterial field: starting from machines and installations with a high engineering profile, Cod.Act operates stereo manipulations of electronic gusts from other galactic horizons, while Nicole L’Huillier combines rhythmic deconstructions and intertwining synthetic patterns in constant metamorphosis.
Finally, it is Zimoun who activates the crackling of tiny objects colliding, bringing us back to the enchantment of a very early, innocent childhood where the simplest sounds could satisfy our sensory receptors, with no other purpose than the discovery of the invisible link between manual action and its auditory counterpart. With the same spirit it is worthwhile to delve into this tribute to the visionary Walter Smetak, among the putative fathers of an experimental scene that still today sees South America enriched by formidable creative talents.