Alessandro Bosetti – Didone

Kohlhaas, 2021
contemporary classical, avantgarde

(ENGLISH TEXT BELOW)

Per quanto drasticamente finiscano con l’allontanarsene, l’ispirazione concettuale e le modalità espressive di Alessandro Bosetti originano e si sviluppano sempre a partire dalla radice umana: voce, linguaggio, pratiche relazionali e identità culturali costituiscono l’inestricabile matassa di una poetica multiforme in stretto – e finanche ossessivo – rapporto con l’esperienza “codificata” del reale.
Non fa eccezione, e anzi rimarca la coerenza del suo percorso di ricerca, lo sfuggente e sardonico ritratto cameristico di “Didone” (2019): un concept di mitologia postmoderna nel quale il profilo reimmaginato della prima regina di Cartagine, decantata anche nell’Eneide, si (s)compone delle disorganiche moltitudini facenti capo ai suoi interpreti, sorgente e sfocio della sua intrinseca alterità.


Frutto di una residenza artistica tenutasi nel 2019 a Modena, a cura di Riccardo La Foresta con la supervisione artistica del sassofonista Dan Kinzelman, la surreale partitura per ensemble misto di Bosetti accorpa schegge testuali arbitrariamente espunte da alcune storie personali riportate dai musicisti coinvolti: letteralmente spaccati di vita, elementi fraseologici interstiziali rispetto alla narrazione di sé, oramai non più riconducibili all’interezza del discorso entro il quale, con ogni probabilità, avrebbero finito per disperdersi; di tali frammenti discreti, già resi non autosufficienti, Bosetti procede a minare ulteriormente la valenza significante, tramutandoli quasi in pura fonetica al servizio della sua imprevedibile scrittura musicale.

La voce del “trans-individuo” delineato in questi nove movimenti non può che darsi, dunque, come criptica e schizoide, benché spesso in totale simbiosi con le tonalità e i registri dell’organico circostante. La mercuriale versatilità del soprano Giulia Zaniboni primeggia sul proscenio di un teatro totalmente interiore che, nei suoi pervasivi echi seriali, ricorda tanto gli stilemi del monodramma schönberghiano (ma anche sciarriniano – segnatamente il suo allucinato “Lohengrin”) quanto delle avanguardie del Rock In Opposition e delle più colte propaggini Zeuhl.
Tutti di provenienza emiliana – eccetto, ovviamente, il sopracitato Kinzelman –, gli esecutori si raggruppano variamente tra i due strumenti a corde (chitarre, banjo) e le due batterie, inseguendo con grande perizia le convoluzioni atonali escogitate da Bosetti, padrone in egual misura di oblique armonie medievaleggianti e di certe digressioni al confine col free jazz (“C12 (Music-video)”), in un continuo gioco di contrasti la cui mutevolezza si spinge sino all’oggettivazione di stampo minimalista (“C14”) e, infine, a un drone/elettronico assoluto (“A13”).

Attraverso una radicale scrematura del linguaggio dai rigidi confini della significazione, l’eccentrica drammaturgia di “Didone” invita ad arrendersi alla supremazia di un’espressività pura, traditrice del concettualismo dal quale prende le mosse al fine di solcare liberamente le correnti di un tempo musicale collassato, elusivo come la novella eroina della quale Bosetti e i suoi sodali si fanno i devoti portavoce.


Line-up: Giulia Zaniboni, voice; Dan Kinzelman, tenor saxophone, flute; Luca Perciballi, electric and acoustic guitar; Glauco Salvo, electric guitar, banjo; Simone Sferruzza, drums; Andrea Grillini, drums


However drastically they may end up moving away from it, Alessandro Bosetti’s conceptual inspiration and expressive methods always originate and develop from the root of human nature: voice, language, relational practices and cultural identities constitute the inextricable tangle of a multiform poetics in close – even obsessive – relationship with the “codified” experience of reality.
The shifty and sardonic chamber portrait of “Didone” [Dido] (2019) is no exception, and indeed emphasizes the coherence of his research path: a concept of postmodern mythology in which the reimagined profile of the first queen of Carthage, also sung about in the Aeneid, is (de)composed of the disorderly multitudes arising from its interpreters, the source and outlet of its intrinsic otherness.

The result of an artistic residency held in Modena in 2019, curated by Riccardo La Foresta with the artistic supervision of saxophonist Dan Kinzelman, Bosetti’s surreal score for mixed ensemble brings together textual splinters arbitrarily removed from a few personal stories told by the musicians involved: literally slices of life, phraseological elements which were interstitial in relation to the self-narrations by now are no longer attributable to the entirety of the discourse within which, in all probability, they would have ended up dispersing; of these discrete fragments, already rendered non self-sufficient, Bosetti proceeds to further undermine the signifying value, turning them almost into pure phonetics at the service of his unpredictable musical writing.

The voice of the “trans-individual” outlined in these nine movements, therefore, can only give itself as cryptic and schizoid, although often in total symbiosis with the pitches and registers of the surrounding line-up. The mercurial versatility of soprano Giulia Zaniboni stands out on the proscenium of a totally inner theater which, in its pervasive serial echoes, evokes both the stylistic features of Schönberg’s monodrama (but also Sciarrino’s – notably his hallucinated “Lohengrin”) as well as the avantgardes of Rock In Opposition and the most erudite Zeuhl offshoots.
All hailing from the Emilia region – except, of course, the aforementioned Kinzelman –, the performers variously group themselves between the two string instruments (guitars, banjo) and the two drums, pursuing with great skill the atonal convolutions concocted by Bosetti, equally proficient in oblique medieval-like harmonies and certain digressions bordering on free jazz (“C12 (Music-video)”), in a perpetual game of contrasts whose mutability goes on to reach the objectivation of minimalism (“C14”) and, ultimately, a drone/electronic absolute (“A13”).

Through a radical skimming of language from the rigid boundaries of signification, the eccentric dramaturgy of “Didone” invites us to surrender to the supremacy of pure expressiveness, a traitor to the conceptualism from which it springs in order to freely sail the currents of a collapsed musical time, elusive like the newborn heroine of which Bosetti and his associates act as devoted speakers.

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